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Smetto quando voglio

Regia di Sydney Sibilia vedi scheda film

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La recensione su Smetto quando voglio

di M Valdemar
6 stelle

Sette personaggi in cerca di un posto (di lavoro) nel mondo.
Un mondo in tenero disfacimento nel quale «ogni cosa finisce per prendere una piega surreale» (come si domanda uno di loro). Come definire altrimenti la condizione così assurda del sistema occupazione italiano e, nello specifico, il perverso tritacarne (le cui lame sono azionate cinicamente dalle solite infide leve politiche) in cui finiscono laureati e ricercatori?
Surreale, appunto.
Il film d'esordio del promettente Sydney Sibilia (anche coautore della sceneggiatura) lo dichiara sin da subito: l'intro è affidata a Why don't you get a job? degli Offspring, brutto finché si vuole ma efficace e dannatamente in tema (anche e soprattutto per l'ironia e il passo scanzonato), mentre i toni lisergici di un'ottima fotografia vivida, satura, notturna, rappresentano una Roma inconsueta in perenne stato di alterazione e alienazione.
Piccoli grandi drammi personali, cocenti umiliazioni, giochi di potere incomprensibili (e incomprensibilmente folli) e giochi al massacro subiti, si susseguono circoscrivendo parabole aventi come ultima meta la rassegnazione. E così, un paio di latinisti di mondiale finscono a fare i turni di notte in una pomba di benzina, un neurobiologo a sperare di passare quanto prima dallo status di lavapiatti a quello privilegiato e meglio retribuito di cameriere, un economista perdersi in loschi giri del poker e in quelli meno rassicuranti di una comunità sinti, e un antropologo a cucirci addosso un personaggio brutto sporco e cattivo quanto basta per aspirare a lavorare in un'officina, salvo poi essere "scoperto": allora il titolo di studio diventa un "errore di gioventù". Pazzesco.
E così via, fino a quando l'ultima sonora batosta non induce il malcapitato protagonista - ricercatore brillante i cui finanziamenti vengono tagliati da superiori impreparati e subdoli - che tiene famiglia e conti da pagare, a cercare una soluzione.
Che, in piena conformità allo stato delle cose, non può che essere disperatamente dissennata: riunire un manipolo di studiosi altrettanto maltrattati per inventare, realizzare e distribuire una nuova droga, "legale" perché non ancora inserita tra quelle note alle autorità. Geniale e semplice allo stesso tempo.
Da qui, il plot prende direzioni intuibili e risapute, tra inevitabili (e spesso esilaranti) incidenti di percorso, cadute legate all'arricchimento e al cambiamento delle dinamiche di banda, risvolti personali, e conseguenze dell'appartenenza al sottobosco criminale, non propriamente per educande (o per mansueti ricercatori universitari).
Eppure la rappresentazione è assai vitale e fluida, una sarabanda ottimamente ritmata e impostata (nonché impasticcata, per una raffinata estetica acida), gioiosamente sopra le (solide) righe (disciolte come sostanza psicotropa nel liquido amniotico di un grembo-mondo del lavoro che mente e stritola); gioca con stereotipi, (immancabili) provincialismi e algoritmi da heist movie per assumere toni satirici ora seri ora semiseri ora semiscemi. Battute e situazioni graffianti vanno a segno spesso, permettendo ghigni amari, risate catartiche e pensieri cattivi.
Il finale, che presenta il conto con un piano ben riuscito (sebbene non esente da difetti e facili scorciatoie) e un villain poco convincente (interpretato da un Neri Marcorè contiguo alla macchietta), tende ad afflosciarsi, in quanto perde forza espressiva in luogo di una ben più rassicurante risoluzione (anche un po' moraleggiante). Ad ogni modo, proprio l'ultima scena rimette le cose al loro (schizzato) posto: meglio un lavoro sicuro in galera che il nulla (o, peggio, il crimine) fuori, nella società cosiddetta civile.
Bravi, in generale, gli attori a prestarsi al gioco: tra gli altri, funzionale la maschera di Edoardo Leo nel ruolo del protagonista, debordante (in tutti i sensi) Stefano Fresi (geniale, per abbigliamento ed espressioni, nell'occasione dell'incidente in auto), incisivo Pietro Sermonti, cafone coatto (nel senso di costretto), mentre risulta poco sfruttata l'unica donna, Valeria Solarino (l'assistente sociale, moglie di Leo). Impagabile poi la coppia Lorenzo Lavia-Valerio Aprea, con i loro battibecchi in latino.
Bella sorpresa, questa opera prima: l'augurio è che Sibilia possa liberamente scegliere se smettere o meno su questa strada.

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