Regia di Dagur Kári vedi scheda film
Siamo nella gelata Islanda.
Fúsi (Gunnar Jónsson) è un quarantenne obeso, una voluminosa montagna di grasso, e la sua mole lo rende impacciato nei movimenti, ingombrante e fuori posto, alieno rispetto all’universo dei normali.
Vive ancora in casa con la madre (senza essere da lei trattenuto o soffocato, come succede alla maggior parte dei bamboccioni); trascorre il suo tempo libero in passatempi solitari (manovrando con abilità adolescenziale delle macchinette telecomandate o giocando ai soldatini e modellando plastici con scene di battaglia); lavora come addetto ai bagagli nell’aeroporto di Reikiavik (dove i compagni lo deridono e gli fanno scherzi feroci, sapendolo incapace di reagire). Pur faticando in un aeroscalo, non ha mai lasciato l’isola.
I recinti dentro i quali si sposta sono per lui barriere di sicurezza e la routine è la gabbia in cui si ripara, la tana in cui ha organizzato un suo fragile equilibrio fatto di immodificabili abitudini, di percorsi sempre uguali, di gesti rituali. Ogni mattina fa colazione con latte e cereali; una volta la settimana cena in un ristorante thai (dove ordina sempre lo stesso piatto); non va in ferie da nove anni ed è forse da altrettanti anni che lavora attorno alla minuziosa ricostruzione del diorama della battaglia di El Alamein.
Accetta con pacata rassegnazione di essere quello che è, non osa cercare altro: sa perfettamente che soffocare un desiderio è meno doloroso che vederselo frustrato; che è meglio non chiedere piuttosto che ricevere rifiuti; che la disillusione è meno traumatica della delusione.
Forse ha paura di vivere. O forse, dal suo rifugio, vede le vite sbagliate degli altri e percepisce l’insensato annaspare nel vuoto dei “normali”.
La madre e l’amico della madre non riescono a mettere in crisi la sua routine con i loro maldestri tentativi di schiodare Fúsi dai suoi percorsi quotidiani.
Lo smuove un poco appena la bambina vicina di casa, di otto anni, che contro ogni divieto ha scelto Fúsi come compagno di giochi e lo vede con gli occhi della autenticità (“Non è vero che sei strano, come dicono tutti, secondo me sei solo timido”).
Ad un certo punto però appare Sjofn, una ex-fioraia: piena di problemi e consapevole della propria deriva, vede la solitudine di Fúsi ma sa vedere anche la dolcezza indifesa del gigante buono, oltre le sue impacciate ruvidezze. Sia pure non del tutto convinta, lo corteggia. Sa scherzare sulla mole dell’amico e fa battute sulla sua asocialità (salutandolo dopo il primo appuntamento gli dice: “Grazie per non avermi ucciso”).
Fúsi si lascia avvicinare con la timida indeterminatezza che lo ha reso impermeabile agli affetti e comincia a sciogliersi, a pensare di poter abbandonare i precari equilibri conquistati. Intuisce, con la sensibilità che gli deriva dalla sofferenza sopportata, che la piccola Sjofn è fragile, bisognosa di punti di riferimento, disorientata e persa più di lui; ma decide comunque, paradossalmente, di andare incontro alla donna indifesa giunta in suo soccorso.
Si delinea una relazione complicata, fatta di piccoli passi e di frenate, di esili illusioni e di ripensamenti, di indistinti desideri instabili, di sogni che evaporano sul nascere.
Sjofn esita, ma Fúsi il remissivo, ritrova una sua testarda determinazione: prende a cuore il suo rapporto non nato e lo coltiva, sia pur senza invadenze, comprensivo ma risoluto, cauto e irremovibile. E scopriamo che dietro l’apparentemente impassibilità c’è un animo empatico, paziente e tenace.
Fúsi, semplicemente, diventa consapevole della sua condizione e decide di decidere. E se non potrà salvare la naufraga, riuscirà almeno a recuperare se stesso e capirà di essere in grado di riprendere in mano una vita che rischiava di andare sprecata e affrontare il suo viaggio.
Dagur Kári – il regista islandese – ha il grande merito di raccontare una storia delicata con tenero distacco e affettuosa ironia, senza cadere nel patetico; traccia il ritratto di un uomo dall’anima lieve imprigionata sotto la ruvida corazza di un ippopotamo; costruisce una storia d’amore fragile senza colpi di scena o happy end; descrive il percorso di affrancamento di un loser (solo apparentemente tale) che esce dalla placenta e taglia il cordone ombelicale senza perdere la sua natura; riempie il film di mille messaggi e segnali densi di straordinaria sensibilità; tratteggia situazioni e personaggi con acutissima efficienza.
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