Espandi menu
cerca
Rivoluzione Zanj

Regia di Tariq Teguia vedi scheda film

Recensioni

L'autore

spopola

spopola

Iscritto dal 20 settembre 2004 Vai al suo profilo
  • Seguaci 507
  • Post 97
  • Recensioni 1197
  • Playlist 179
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Rivoluzione Zanj

di spopola
8 stelle

Un film politico e militante di eccezionale rilevanza che è anche un affascinante e appassionato strumento di conoscenza e di riflessione. Epico e visionario, straripante e serrato allo stesso tempo, è costruito magistralmente con sequenze tronche e spiazzanti, desertici campi lunghi e concitaste riprese piene di movimento. Da non perdere insomma

Pauvre idiot de révolutionnaire, milionnaire en images de révolution [Povero idiota di un rivoluzionario, milionario in immagini di rivoluzione] – (Jean-Luc Godard, voce off di commento nel film Ici et ailleurs)

 

Questo straordinario, intenso film di Tariq Teguia mi ha fatto ritornare con la mente a Frantz Fanon e al suo libro I dannati della terrapubblicato nel 1961 solo pochi mesi prima della sua morte, ma ancora tanto attuale se interpretato nella giusta direzione, che esprime al pari di Zanj Revolution, un livello di pensiero estremamente alto e avanzato: l’affermazione e la presa di coscienza del significato universale della parola “rivoluzione”.

Anche se il libro ha le sue radici nella ormai lontana (ma non dimenticata) rivolta algerina finalizzata a sconfiggere il colonialismo e si alimenta di un’esperienza esaltante e terribile come quella, esso trascende di gran lunga l’ambito di una particolare nazione o di un avvenimento contingente, il che dà alla sua storia un senso più generalizzato e compiuto che praticamente rende l’intera umanità il soggetto consapevole del suo messaggio. Parlo di quell’idea di “uomo nuovo” così ben delineata da Fanon (ma che anche l’opera di Teguia riesce a definire con altrettanta competenza nel suo percorso narrativo sospeso fra passato e presente) che fece scrivere a Jean-Paul Sarte: “(…) quest’uomo nuovo – questa nuova idea – comincia la sua vita dalla fine; si considera come un morto in potenza. Sarà ucciso: non è soltanto uno che ne accetta il rischio, è che ne ha la certezza; quel morto in potenza ha perso sua moglie, i suoi figli; ha visto tante agonie che vuol vincere piuttosto che sopravvivere; altri approfitteranno della vittoria, non lui: è troppo stanco. Ma questa fatica del cuore è all’origine di un incredibile coraggio. Noi troviamo la nostra umanità al di qua della morte e della disperazione, lui la trova al di là dei supplizi e della morte. Noi siamo stati i seminatori di vento; la tempesta è lui. Figlio della violenza, attinge in essa ad ogni istante la sua umanità: eravamo uomini a sue spese, si fa uomo alle nostre. Un altro uomo: uno di qualità migliore”.

Non c’è solo Fanon però dietro a un film per il quale qualcuno ha parlato pure di Darwish, Gramsci, Nietszche e persino di Melville (Moby Dick) e Butor: c’è anche e soprattutto, l’eco dell’esperienza godardiana (e del metodo da lui utilizzato per fare cinema, principalmente quello politico degli anni più fulgenti  e problematici della sua filmografia) in quel lavorare per frammenti e per ellissi che li accomuna, nel non sponsorizzare aprioristicamente una “tesi” che ci viene comunque fatta percepire per dettagli, per assonanze e convergenze (una citazione, un riferimento, che entrano magari di straforo, ma in maniera assolutamente naturale e mai forzata, e tale da fornire un indiretto, ma sostanziale e decifrabilissimo percorso di lettura che volutamente impegna anche lo spettatore nel cercarne la chiave e il senso proprio attraverso quegli incontestabili elementi identificativi che ci sono stati forniti).

Del resto proprio di questo riferimento “certo” lo stesso Teguia ci rende edotti in uno dei momenti centrali del suo film, quello della lunga sequenza in cui vengono proiettate (e fatte fluttuare anche sui corpi degli spettatori che nel film assistono a quella visione) le immagini di uno dei più controversi (per la critica e il pubblico) e sovversivi risultati di Godard, il mediometraggio Ici et ailleurs da lui girato nel 1976 insieme a Anne Marie Miéville.

E’ dunque ben presente l’influenza “didattica” (rielaborata però in maniera assolutamente personale e mai citazionistica o imitativa) di molto del cinema militante con cui lo stesso Godard ha vitalizzato e reso produttivamente costruttiva (anche sotto il profilo dibattimentale) la scena del decennio dei ‘60 del secolo scorso, anticipando (e preannunciando) addirittura il ’68 (penso a Le petit soldatLa chinoise,Weekend – Un uomo e una donna dal sabato alla domenica, ma anche ai successivi Lotte in Italia del 1970 realizzato con Jean Pierre Gorin [Gruppo Dziga Vertov] e Detective che è addirittura del 1985).

In effetti, pur essendo (a mio avviso) il film di Teguia quello che è riuscito meglio di ogni altro ad esplicitare e rendere palpabile la carica incendiaria, la rabbia e le tensioni delle cosiddette “primavere arabe” (troppo presto purtroppo ripiombate nell’inverno) precedendole persino nel loro divenire, poichéZanj Revolution, girato praticamente mentre quelle rivolte che avrebbero infiammato il mondo di qua e di là dal Mar Rosso (dall’Egitto all’Algeria, dallo Yemen  alla Tunisia) si stavano concretizzando (ma il progetto aveva già preso l’abbrivio nel 2010), di quei sommovimenti non ci mostra alcuna immagine, ma ci narra in pratica (quasi) tutto facendocene percepire non solo il senso (purtroppo prontamente rintuzzato dai successivi eventi) ma anche le origini, le radici dalle quali hanno preso forma (con particolare riferimento alle contraddizioni sociali e politiche che non sono soltanto africane, ma riguardano il mondo intero): ici et ailleurs insomma, “qui e altrove” (ma che si potrebbe benissimo tradurre anche con un altrettanto pertinente “qui ed ora”), ed è la storia stessa che racconta a richiedere questa dualità con i suoi incroci spazio-temporali che la rendono profonda e palpitante, oltre che visivamente affascinante.

E come già accadrà in Timbuktu di Sissako, anche qui c’è il conflitto degli idiomi (lo scontro dei tanti, differenti dialetti arabi e delle loro contaminazioni  lessicali alcune delle quali discendono direttamente dal colonialismo), capace di trasformarsi in un corpo a corpo linguistico fortemente esplicativo, più efficace di qualunque discorso programmatico, che diventa l’anima stessa di quella che potremo considerare “un’opera in divenire” magistralmente diretta da un regista che come già aveva dimostrato con le sue precedenti fatiche (Rome plutot que vous, e Inland), sa osare davvero, ed è in grado di utilizzare una insolita, efficace modalità narrativa (che rappresenta anche una stimolante, inusuale ricerca volta a sperimentare nuove strade proprio nel campo della sintassi cinematografica), che avrebbe meritato di essere valutata con maggiore disponibilità e fiducia dalle nostre strutture distributive, al fine di garantirle una conseguente penetrazione più capillare, indispensabile per incidere di più sulle coscienze della gente: speriamo allora che il web riesca almeno in parte a colmare questa lacuna e conceda finalmente a Teguia (e al suo film), tutta l’attenzione che merita: lui non si sofferma troppo a pontificare intorno alla lotta di classe, al colonialismo, alle ribellioni mediorientali, all’annosa questione palestinese, alle crisi finanziarie o alla rivoluzione stessa, anche se quello che è importante sapere e conoscere di tutte queste cose, ce lo fa comunque pervenire con chiarezza, ma utilizzando – al pari di Godard - un linguaggio mediato, duro ed estatico, acido e dolce allo stesso tempo, che qui diventa la sua  inconfondibile cifra stilistica.

Nel suo continuo interrogarsi sulla  più efficace strada da percorrere che qui si sviluppa su due opposte sponde, quella politica e quella visionaria che comunque riesce a far convivere insieme senza alcuna frizione o forzatura, preferisce insomma concentrarsi  sull’importanza della memoria ritornando al passato, anche a quello più mitico e leggendario (ed è una scelta saggia e produttiva che ci “regala” questa eccellente, anomala pellicola fatta di traiettorie infinite e impossibili raccordi, che ha una purezza visiva e una forza affabulatrice davvero ammalianti).

 

scena

Rivoluzione Zanj (2013): scena

 

 “Di dove sei?”

“Di dove vuoi che sia, sono di qui, sono dovunque su questa terra, sono palestinese”

 

L’evento che il regista prende a pretesto per il suo racconto (scritto come si è già detto prima del fiorire delle primavere arabe), è un fatto accaduto tra l’VIII e il IX secolo in un territorio che adesso si identifica con l’Iraq, ma che a quei tempi era il califfato degli Abbasidi: la rivolta dei suoi schiavi negri noti come Zanj, le cui gesta riecheggiano ancora  intorno alla città di Baghdad (la storia – o la leggenda – racconta che dopo essersi rivoltati al sultano Abd al-Malik ibn Marwan, questi servi neri,dopo una lotta che mise a ferro e fuoco l’impero islamico per oltre dieci anni, riuscirono a fondare una  loro città libera che fu poi smantellata nel sangue, ma senza poter impedire alle monete degli schiavi trucidati, di posarsi sul letto del fiume Tigri a imperitura memoria..

Il deus ex machina del racconto è un giornalista algerino della contemporaneità (Ibn Battuta) che mentre segue i conflitti interni nel sud della sua terra, ritrova casualmente le tracce di questa rivolta antica e quasi dimenticata (nella quale potrebbero essere trovati i prodromi di ciò che in quel momento stava appunto accadendo fra l’Egitto e la Tunisia)  che lo sollecitano a recuperarne interamente la conoscenza. Convinto del persistere (anche ripetitivo) della Storia (e spronato dalla possibilità di creare così un costruttivo dialogo tra presente e passato che consenta di giudicare la contemporaneità con un occhio meno deformato e di guardarla da un inedito punto di osservazione), l’uomo inizia una personale indagine su questa remota, utopica rivoluzione pan-araba, che da Algeri lo porterà a Beirut, la città  che un tempo era il simbolo delle speranze e delle lotte di quei popoli. Lì, fra altre singolari figure, incontra anche una ragazza palestinese (Nahla), un’apolide bella e determinata figlia di un anarchico libanese ritornata in quella città  sulle tracce della rivolta del 1982  (e  che entrerà materialmente nella realtà viva della lotta in chiusura dell’opera, quando la ritroveremo partecipante attiva delle manifestazioni di protesta in Grecia): Atene infatti sarà un’altra importante tappa del suo peregrinare (potremmo dire intorno al mondo?) che porterà Ibn Battuta a conoscere e confrontarsi con una variegata umanità (combattenti, gruppi, artisti, persone comuni).

 

Diana Sabri, Fethi Ghares

Rivoluzione Zanj (2013): Diana Sabri, Fethi Ghares

 

Questa straordinaria opera che forse più di altre ha illuminato con la sua stratificata bellezza l’ultima Festa del cinema di Roma, ci insegna dunque che a volte, per andare avanti e comprendere il presente, è necessario voltarsi e guardare indietro nel passato, e qui il salto è compiuto magistralmente, con spericolata destrezza, volando con la macchina da presa da una parte all’altra del Mediterraneo e spingendosi addirittura fino a New York,  seguendo il percorso del suo protagonista alla ricerca di quella vecchia storia sepolta nell’oblio, che sembra poi coincidere con quello “formativo” del regista affrontato con consapevole determinazione.

Il risultato è un film di superlativa bellezza  formale come questo, che al di là del valore elevatissimo dei suoi contenuti, convince anche per un approccio estetico di analoga, straordinaria rilevanza, sorretto da un stile personalissimo e altrettanto efficace, capace di far convivere “magicamente” fra loro, realtà e finzione.

“Epico” e visionario, straripante e serrato allo stesso tempo, è insomma un affascinante e appassionato strumento di conoscenza e di riflessione assolutamente imperdibile (vedi la cruda e poetica concretezza con cui il regista ci racconta i differenti volti delle varie città che vengono attraversate, i loro punti di transito, gli spazi periferici che lo stesso protagonista immortala regolarmente con la sua macchina fotografica che tenta di  riprendere anche quello che non c’è - o che non si riesce ancora a vedere - costruito con sequenze tronche e spiazzanti, desertici campi lunghi e concitate riprese piene di movimento che non intende fare la rivoluzione (non è questo il suo compito), ma ne mette sicuramente in scena l’essenza più profonda e meditata, ce ne fa comprendere l’importanza e la portata, con quel suo girovagare serrato e senza sosta fra  Palestina, Libano, Grecia, Siria, Stati Uniti (e le loro contraddizioni) e il suo sguardo “consapevole” e tutt’altro che neutrale, che lo rende a suo modo un film politico e militante di eccezionale rilevanza (se ne fanno purtroppo molto pochi ai giorni nostri). Che c’è di meglio allora per concludere se non ritornare di nuovo a Fanon e a “I dannati della terra?:

“Politicizzare le masse non è, non può essere, fare un discorso politico. È accanirsi con rabbia a far capire alle masse che  tutto dipende da loro, che se noi ristagniamo è colpa loro, e se noi avanziamo è pure colpa loro, che non c’è demiurgo, non c’è uomo illustre e responsabile di tutto, ma che il demiurgo è il popolo e le mani di un mago non sono in definitiva se non le mani del popolo”.

e ancora:

Se l’uomo è ciò che egli fa, allora diremo che la cosa più urgente oggi per l’intellettuale africano è la costruzione della sua nazione. Se questa costruzione è vera, vale a dire se essa traduce il valore manifesto del popolo, se essa rivela nella loro impazienza  i popoli africani, allora la costruzione nazionale  si accompagna necessariamente con la scoperta e con la promozione di valori universalizzanti. Lungi dunque dall’allontanarsi dalle altre nazioni, è la liberazione nazionale che rende la nazione presente sulla scena della storia. E’ nel cuore della

coscienza nazionale  che si eleva e si vivifica la coscienza internazionale. E questo duplice emergere non è altro, in definitiva, che il focolaio di ogni cultura. (…) Per l’Europa, per noi stessi e per l’umanità, compagni, bisogna rinnovarsi, sviluppare un pensiero nuovo, tentare di mettere su un mondo nuovo.

Da vedere e (ri)vedere insomma, senza stancarsi mai!

 

 

Tariq Teguia

Rivoluzione Zanj (2013): Tariq Teguia

 

 

(La traduzione delle citazioni dei brani di Frantz Fanon  e di Jean-Paul Sarte sopra riportati (e ripresi appunto da I dannati della terra pubblicato da Einaudi, è di Carlo Cagnetti).

 

locandina

Rivoluzione Zanj (2013): locandina

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati