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Godzilla

Regia di Gareth Edwards vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Godzilla

di lussemburgo
7 stelle

Il reboot del più famoso kaiju mondiale non è un remake del mancato tentativo di Emmerich del 1998, semplice variazione del film catastrofico aggiornato ai nuovi modelli digitali, ma un recupero del materiale preesistente e il suo inserimento in una nuova narrazione. Mescolando archivio e spezzoni cinematografici pregressi, Edwards crea un passato ad una mitologia cinematografica nota miscelando storia e invenzione, aggiorna il racconto con costanti riferimenti alla cronaca recente, dallo Tsunami a Fukushima, ricercando una sintesi di plausibilità all’interno della finzione abbinata ad un continuo cambio di prospettiva nel passaggio dal gigantesco all’umano, dal mostruoso al domestico. Ne è esempio l’introduzione alle vicende attraverso il cavallo di Troia funzionale degli affetti, ovvero la distruzione di un nucleo familiare per colpa di un mostro invisibile ambientata (forse ironicamente) ai tempi del precedente film. La Binoche e Cranston, volti noti del cinema e della tv, fanno da ponte emotivo e da veicolo alla presentazione del protagonista, il loro figlio adulto (dopo un salto di tre lustri) il quale, a sua volta, è quasi solo il testimone degli eventi e lacerato dall’incertezza delle condizioni della propria famiglia. Dopo aver creato questo nucleo di melodrammatico di fondo, esemplare e insignificante al contempo, sineddoche delle svariate umane tragedie sfiorate e accennate altrove dalla narrazione (il bambino giapponese, le famiglie ricongiunte, i soldati sacrificati), il film si dedica alla decodifica degli eventi allusi inizialmente e alla ricostruzione della nuova figura di Godzilla. Rispetto al film di Emmerich, che usufruiva di molte parti di alleggerimento comico e della convenzione della distruzione di New York tipica degli Anni 90 (Armageddon, Deep Impact) e ricorrente per il regista (Independence Day), il film di Edwards tocca gli Stati Uniti a San Francisco e a Las Vegas (dove si ritrovano, debitamente variate, le riprese aeree ricorrenti in CSI) per evitare echi evidenti all’11 settembre che dissiperebbero l’attenzione. Il punto di vista è spesso posto a livello del terreno, dove scappano e muoiono gli uomini, impotenti spettatori della distruzione generale. E ben poca levità viene offerta dal racconto che, in parallelo, narra le vicende del neo-orfano (che si affianca ai militari nel tentare di contrastare l’aggressione), della giovane moglie (infermiera, coinvolta nelle conseguenze del conflitto) e del figlio (sovranamente impotente perché bambino e preda del panico diffuso) coinvolti a vario titolo in scene di morte e distruzione. Il film, per questa scelta di scala e di campo, rimane fedele allo stupore inquieto del protagonista, sminatore in licenza, e alla sua gamma di valori e di proporzioni. Come in Cloverfield (e poi in Super 8 di Abrams), memore dello Squalo (e di Alien), il mostro non si mostra se non a narrazione avviata, facendone vedere inizialmente soprattutto gli effetti, con costruzione di suspense e di mistero. E proprio ad Hitchcock sembra far riferimento la colonna sonora, che pare citare Herrmann e la riconoscibilità della sua musica, così come una sequenza che rimanda al suo film più analogo con gli uccelli che, all’improvviso, si schiantano contro vetrate e persone. A differenza di Pacific Rim, gli umani non sono dotati di robottoni giganti bensì solo di armi di distruzione di massa e della radioattività derivata che, peraltro, ingolosisce i mostri. Perché la variante di questa nuova versione del kaiju classico è la moltiplicazione dei mostri: non il solo Godzilla, proto-dinosauro roccioso, ma vi è l’aggiunta di una coppia di voraci esseri, incrocio tra pipistrelli e scarafaggi, sul punto di figliare. Ne deriva una ridefinizione del ruolo di Godzilla come ‘mostro buono’ o relativamente positivo, distruttore per natura e per dimensioni ma difensore di uno status quo naturale che gli artropodi metterebbero a rischio, inconsapevole alleato degli umani (che, ovviamente, stentano a rendersene conto). Nascosto tra le righe, il messaggio ecologista e anti-nuclearista rischia di passare in secondo piano, offuscato da una certa retorica patriottarda, funzionale, però, alla messinscena della risposta militare agli eventi, peraltro inefficace e controproducente. È l’inanità dell’uomo a essere rimarcata, non soltanto dalle dimensioni dell’avversario, tali da annichilire la presenza e l’influenza umana, ma dalla incapacità a trovare un risposta adeguata e non meramente distruttiva con il rischio suggerito di far regredire il pianeta ad un tasso insostenibile di contaminazione radioattiva, riportandolo alle condizioni di vita degli antichi kaiju. Ma è soprattutto un punto di vista registico ad emergere dal film, nella costruzione dell’atmosfera e nell’uso degli elementi naturali, nel continuo passaggio tra intimo e generico che rafforza la sensazione di fallibilità e di inadeguatezza dell’uomo, del lavoro sulla scala delle proporzioni che rimarca l’impotenza e la paura. Costruita in post-produzione, la stereoscopia si affianca alla narrazione costruendo una profondità ulteriore all’interno dello schermo che, nella sua immaterialità che vuole mimare la natura, da convenzionale diventa metafisica nel ridimensionare la vanità dell’uomo e mostrarne l’evidente fragilità.

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