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Sentieri selvaggi

Regia di John Ford vedi scheda film

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La recensione su Sentieri selvaggi

di emil
8 stelle

Il soldato Ethan Edwards (John Wayne) alla ricerca della nipote Debby (Natalie Wood) rapita dai Comanche.

 

Cowboy contro indiani, verrebbe da dire così, di primo acchito.

Ma "Sentieri selvaggi " è molto di più.

Una porta si apre davanti allo spettatore incorniciando il gran canyon, un luogo che ha le stigmate dell'America in ogni granello ruzzolante di polvere. In quelle lande selvaggia e brulle si consuma il dramma della perdita e dell'abbandono, il tormento interiore del reduce di guerra Ethan ( John Wayne monumentale) un uomo dalla morale ambigua e razzista, la cui visuale è orientata in un unica direzione, perché offuscata dalla sconfitta subita dagli Yankees durante la guerra civile e che "giustifica" l'odio che egli nutre verso gli indiani.

Il film presta il fianco al razzismo, certo. Come non rendersene conto?

Donne bianche divenute pazze a seguito della compagnia di donne indiane, altre che vengono prese a calci. Il protagonista che infierisce sui cadaveri dei Comanchos. Il capo indiano monodimensionale, senza sfumature.

Roba di grana grossa.

Questo disprezzo serpeggia lungo l'intero film, costringendoci a non poter ignorare una lettura politica di "Sentieri Selvaggi". Che incarna il sentimento americano di protezione e sicurezza, che va difeso a tutti i costi. Fortunatamente c'è Martin Pawley (Jeffrey Hunter) , compagno di viaggio di Ethan, da egli bislaccamente definito "mezzosangue", che riequilibra le cose, antagonista ideale  in tutto e per tutto dello "zio acquisito", porta bandiera di un umanità più convenzionale. Ed è proprio la non convenzionalità del personaggio interpretato da Wayne, il suo essere fuori dagli schemi , così ambiguo e non chiaramente decifrabile , uno dei motivi del successo postumo del film, che entra di diritto nella storia del cinema grazie ad un portentoso impatto visivo , capace di sfruttare appieno l'ampiezza del formato 1.75:1 , attraverso il quale non "vediamo" ma "viviamo" la Monument Valley, siamo lì anche noi.

Un visionario Ford, capace di togliere il fiato con riprese a campo aperto di sterminate valli e promontori, di controcampi maestosi e cavalli lanciati al galoppo, ed allo stesso tempo di intenerire con primi piani di struggente intensità. Come quello che destina il Duca ed una giovane ed immacolata Natalie Wood all'immortalità nel finale "bigger then life", che "contiene tutto il fascino ed il mistero del cinema americano".

Se lo dice Godard ci fidiamo.

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