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Il giovane favoloso

Regia di Mario Martone vedi scheda film

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La recensione su Il giovane favoloso

di LorCio
10 stelle

Oltre che salutare con magno gaudio il significativo successo che sta raccogliendo, sarebbe interessante evidenziare innanzitutto i motivi che stanno all’origine della ressa presso le sale cinematografiche. Il giovane favoloso piace, sulla carta, perché è un film, diciamo così, didattico che istruisce o accarezza lo spettatore. Il film piace, sempre sulla carta se non nelle intenzioni, a quel famoso ceto medio riflessivo che vede in esso la possibilità di un riscatto culturale per tutta una nazione.

 

Potremmo dire che Il giovane favoloso è l’ultimo esempio di “film nazionale”. Biglietto da visita che dia ad un paese l’illusione di essere in salute, operazione culturale con speranze pubblicitarie (forse il primo vero progetto a lungo termine della pigrissima regione Marche), il vestito buono che il nostro cinema indossa al gran gala, pur avendo in casa una situazione quantomeno drammatica (nessun film italiano d’autore ha sfondato il milione d’incasso in questo inizio di stagione).

 

Detto questo, ed appurato che trattasi di film che va al di là del suo specifico peso artistico proprio per l’immenso potenziale “culturale” che possiede, va reso chiaro che Il giovane favoloso è un film memorabile. Magari non perfetto, volendo pieno di difetti e incertezze, ma talmente grande, difficile, rischioso da risultare inevitabilmente memorabile per la sua estrema capacità di rielaborare un moloch.

 

La nostra tradizione di cinema biografico presenta tre momenti: l’apologia in funzione politica (Mussolini come Scipione l’Africano) o come inerme tassello di storia patria (il grande esempio dei grandi uomini: Verdi, Puccini, Anita Garibaldi, Caruso, Casa Ricordi…); le corrispondenze temporali e politiche (protosessantottini, femministe ante litteram, grandi incompresi: san Francesco, Galileo, Rimbaud, Giordano Bruno…); e il santino agiografico tipico della fiction (padrepii, papi, De Gasperi, Borsellino…).

 

Il tentativo, peraltro riuscito, di Mario Martone sta nel rielaborare la figura monumentale e stereotipata di Giacomo Leopardi in un particolarissimo equilibrio di pedagogia e fantasia, ricostruzione ed immaginazione, biografia e visione. Il merito di Martone risiede nell’aver spogliato il sommo poeta dalla retorica scolastica consegnandolo definitivamente alla contemporaneità, che vuol dire, nei migliori dei casi, eternità (a differenze della modernità che è un concetto finito).

 

Certo è evidente l’affetto degli autori (Martone e Ippolita di Majo) nei confronti di uno spirito eletto costantemente alla ricerca di comprensione, di un posto nel mondo – che poi in definitiva è ricerca di un amore. Ma a colpire in questa personale ma plausibilissima rappresentazione del conte Giacomino è la rispettosa libertà interpretativa, quasi truffautiana (film liberissimo), che finisce a contaminare l’intero film. Benché sia ovvio come un film su Leopardi diventi naturalmente un film di, con, per, da Leopardi, tale è la mole del personaggio.

 

Il consueto rigore del cinema di Martone (mai didascalico né costretto in steccati), giocato tutto su continue aperture e chiusure, dai tormenti notturni del Matematico napoletano (così come qui le mille lune a cui si rivolge Leopardi) alle corse ardite dell’Amore molesto (le fughe dalla casa-gabbia con il fratello Edoardo Natoli o il Pietro Giordani di Valerio Binasco), trova una felice sintesi nella suddivisione in due parti, antitetiche ed intimamente legate.

 

La prima, tutta incentrata sulla chiusura dentro la casa e sulla maturazione del desiderio di fuga (cerebrale prima, fisica poi), è dominata da un’inquietante figura paterna, il colto e severo conte Monaldo apparentemente tirannico eppure disperatamente innamorato del figlio, che l’eccellente Massimo Popolizio impersona con una recitazione sommessa e sofferta nella sua titanica inflessibilità. Pare la classica messinscena di uno scontro generazionale, ma ha qualcosa in più da dire.

 

È un film sui rapporti familiari, quasi bellocchiani direi (L’Italia è vicina – nell’ottica di Recanati è fuori dall’Italia e dalla Storia), con madre anaffettiva (Raffaella Giordano), zio che dà del voi al nipote (Paolo Graziosi), fratelli amorevoli (la sorella è Isabella Ragonese), precettore ottuso e ligio (Sandro Lombardi). Un film sul di “dentro” dell’adolescente che si ammala progressivamente, che vorrebbe urlare per non udire (la scena fondamentale del processo domestico); e sul “fuori” che gli dà l’illusione o la certezza della cura inevitabile (la povera Silvia come emblema), quindi la scoperta, la ricerca, il bildungsroman.

 

È la parte narrativamente più riuscita del dittico non solo perché più raffinata (eleganza formale, gusto essenziale, delicatezza trattenuta) e direi sovversiva (furente ma non ancora devastante), come d’altronde è il teatro di guerra martoniano, ma anche per la sua capacità di costruire la nascita di un poeta come la nascita di una nazione, tale è la concentrazione di fremiti artistici (dalla traduzione libera dal greco alla poesia) e di fermenti politici (conservatori cristiani contro ribelli liberali) che si annidano tra le mura della casa di Recanati.

 

Il secondo capitolo è tutto vissuto fuori da Recanati e l’assenza di Monaldo-Popolizio pesa come un fardello cosmico, come un dolore interrotto per poter provare a vivere. Il testimone passa ad Antonio Ranieri, fin troppo bello e fascinoso nella calda recitazione di Michele Riondino che esalta la differenza con il gobbo e timoroso Leopardi. Se una critica si può muovere nei confronti del film, essa risiede nella (forse) facile scelta di suggerire una possibile infelicità derivata dal confronto con Ranieri.

 

Anche se Giacomino non vuole che si ritenga il suo corpo la ragione dell’infelicità della sua poesia (come urla in un bar mentre mangia un gelato che non dovrebbe gustare), come possiamo esimerci dal pensare perlomeno ingombrante quel corpo nelle relazioni umane se non proprio affettive e non poetiche? Se nella prima parte vediamo la crescita intellettuale del giovane, la seconda si lascia andare ad un discorso più personale, intimo eppure carnale: per questo sorge il dubbio, lecito, sulle problematiche fisiche del poeta.

 

Come nella prima ha ragionato sull’anima, Martone trova nel corpo il fulcro di questa seconda parte: in opposizione allo splendido corpo di Ranieri che ottiene tutte le donne, compresa la bellissima Fanny dal corpo perfetto (Anna Mouglalis); in ottica anti-pietistica quando non ottiene il premio letterario; in quanto guerra continua con l’anima che lo contiene, e si veda la scena dell’inconsulto rotolamento nel fango o del viaggio verso Roma e Napoli.

 

Da Firenze passando per Roma fino a Napoli, il film è un giro d’Italia ancora in fieri che ben si associa a quell’idea di film della nazione di cui sopra e di progetto di storia patria (quindi anche geografica). L’arrivo a Napoli, in ogni caso, è un ritorno a casa per Martone e sicuramente la sezione più pericolosa dell’opera. E non soltanto per l’ormai celebre, disturbante ed allucinata (forse anche fonte di perplessità) scena del postribolo (proveniente da un particolare lavoro teatrale di Enzo Moscato, qui in un cammeo).

 

Leopardi nel ventre di Napoli è la tappa finale del suo viaggio fuori da Recanati, nonché tappa finale di un percorso esistenziale in cui il corpo è ormai ridotto ad una carcassa informe, il colera trionfa come un presagio di morte e il Vesuvio erutta in nome della natura matrigna (per inciso, l’intermezzo della scultura di sabbia con le sembianze della madre balla sul confine del genio e del kitsch e, per dire, fa un po’ come l’arrivo dei fenicotteri de La grande bellezza: non tanto un “che c’azzecca”, quanto un “ma perché?”).

 

Gran finale con La ginestra. Letta e non declamata, vissuta e non teatralizzata. Scelta naturalmente di regia per riconsegnare la poesia proprio alla bocca del poeta, rendere il mondo partecipe del processo di generazione della poesia (nel corso del film ascoltiamo, d’amblée e senza avviso, parecchi componimenti quasi a mo’ di chiusura o apertura di un cerchio narrativo o espressivo o umano) ed estirparla dalla pagina per lasciarla vivere in luoghi concreti (fotografati con una naturalezza disarmante ed accecante da Renato Berta).

 

Ora, il film è un macigno. Non s’intenda per “macigno” qualcosa di relativo alla pesantezza volgarmente concepita, quanto proprio un’opera talmente grande sia nelle intenzione che nei risultati da meritare non solo il rispetto ma anche l’ammirazione di chi ne fruisce. Piaccia o non piaccia, Il giovane favoloso è un’operazione spericolata nell’universo leopardiano che ha il pregio di farsi amare pure da chi non ha dimestichezza con la materia. Per certi versi è addirittura un film popolare ed è la più seria alternativa cinematografica all’imperante biografia televisiva.

 

Non dobbiamo cadere nella trappola dei parallelismi col presente: essendo un classico, Leopardi è eterno. Raccontare il presente riferendosi al passato è ormai una stucchevole iniziativa che limita la potenza, per esempio, di un film che non ha bisogno di esegesi o glosse che speculano sui nostri tempi. In fondo il limite strutturale di Noi credevamo, l’altro film ottocentesco di Martone, stava nella sua rincorsa alla metafora e all’analogia coll’oggi, quando in realtà era forte nell’ambito di una controversa “nascita di una nazione” in sé e per sé.

 

Non piace e non piacerà a chi cerca la parafrasi di Leopardi (perché dovrebbe spiegarsi?), a chi vuole la poesia declamata per la sua magnificenza e non letta nella sua meravigliosa meschinità fuor di retorica, a chi ritiene il poeta un personaggio troppo importante da restare infilato nelle maglie di un’operazione del genere, a metà tra la didattica spiccia e le impennate artistiche degli autori. Ed è giusto così.

 

È giusto perché non tutti sono disposti ad accettare l’idea di un Leopardi immerso nel fango che si lascia cullare dalle dissonanti musiche elettroniche di un berlinese (Apparat nella fattispecie), a capire che un cinema di questo tipo non vuole e non deve essere filologico perché in questi casi la filologia limita il discorso entro barriere quasi accademiche (gli ingegnosi ma non fallaci costumi di Ursula Patzak sono lì a dimostrarlo), a chiedere il cinema una risposta diversa rispetto a ciò che si chiede per principio (come i romanzi trasposti al cinema che deludono i fans dei romanzi).

 

Noi la si accetta, e di buon grado, con entusiasmo direi. Per tre motivi. Il primo è la definitiva consacrazione di un autore il cui percorso cinematografico presenta un solo episodio discutibile (L’odore del sangue: altro esempio di come il cinema di Martone sia un cinema del e sul corpo), forte di una social catena di collaborazioni importanti (stuolo di cammei in amicizia: Renato Carpentieri, Andrea Renzi, Roberto De Francesco, Nello Mascia Jurij Ferrini, Mattia Sbragia, Veronica Lazar…), finalmente giunto ad una maturità espressiva col mezzo che raramente capita a grandi autori teatrali (a parte Visconti, chi altri nel cinema italiano?).

 

Il secondo è l’operazione in sé che, al di là della retorica sulla cultura eccetera, merita attenzione e rispetto per la perseveranza di proporre al pubblico qualcosa di sinceramente interessante ed appassionante per l’intelletto e per il cuore. Un po’ di cuore mancava in Noi credevamo che comunque era ugualmente un’operazione culturale importantissima, nonché, e soprattutto, un grande film su cui dovremmo ancora parlare per qualche tempo.

 

Il terzo è Elio Germano. Che non avevo citato finora per dedicargli la chiusura. Autore ed attore, come nella tradizione dei grandi attori nostrani, Germano vive il personaggio, scrive come lui, rielabora, ricostruisce, ripensa il mito, si distacca dall’iconografia e ne riconsegna un’altra. Urla, sta zitto, guarda, immagina, spera, perde, ragiona, vive. Va detto: non c’è attore della sua generazione che avrebbe potuto interpretarlo in un modo così esclusivo e convincente. Elio Germano è immenso.

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