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Asfalto

Regia di Joe May vedi scheda film

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La recensione su Asfalto

di spopola
8 stelle

Sarebbe limitativo circoscrivere alle sole opere di Wiene, Murnau, Robinson o anche del primo Lang, l’influenza prioritaria del movimento espressionista sul cinema tedesco delle origini (quello antecedente al 1933), anche se a rigor di logica sono stati  questi alcuni dei nomi più significativi che hanno meglio di altri “definito” la corrispondente corrente cinematografica, a partire proprio dal suo “manifesto” più esposto, rappresentato appunto dal Caligari, pensato per Lang e realizzato da Wiene ). I  prodromi, i riferimenti, le radici sotterranee di quella particolare “modalità ispirativa”, sono infatti  riscontrabili in un ben più vasto panorama di lavori che a rigor di logica non possono poi essere davvero definiti “espressionisti” a pieno titolo, ma che presentano  “apparentamenti” (a volte più tematici che formali) di straordinaria rilevanza  (quali sono per esempio le analogie “motivazionali” non solo con l’intimismo del  “Kammerspiel”, ma anche e addirittura – azzardo – con le prime prove ispirate al realismo, come appunto questo Asfalto, realizzato da Joe May nel 1929 al quale mi riferisco in questa circostanza).

La formula qui non è più “espressionista” in senso lato, tutt’altro, ma ci sono ugualmente dei parallelismi che mi suggeriscono di parlare di “corrispondenze comportamentali” (e in Asfalto,  mi sembra particolarmente rilevante segnalare “attinenze” proprio un quella che potremmo definire “la situazione umana dei protagonisti”, nel loro velleitarismo oppositivo quasi di rivolta che attecchisce prioritariamente e si alimenta nell’impotenza utopica e un po’ filistea della borghesia dell’epoca, o ancora meglio, “nell’impulso intemperante e poco meditato delle scelte e degli atti compiuti” che non fa riflettere adeguatamente sulle conseguenze che potrebbero derivare, e si estrinseca spesso in azioni e stili di vita totalmente diversi  - persino inimmaginabili o inconcepibili - se riferiti alla normalità un po’ conforme del quotidiano). Ne è un esempio lampante la figura del poliziotto Karl, tormentato dal rimorso di non aver mantenuto fede al proprio dovere soprattutto nell’improvviso scatto di violenza che ha compiuto a causa della passione per una “femme fatale”  che gli ha fatto smarrire il rispetto  dei rigidi principi formativi ed etici che una volta avevano ispirato la sua condotta e costituivano le fondamenta della sua esistenza. L’atto del giovane, con cui compromette l’onore professionale a causa di una puttanella ladruncola (Siegfrid Krakauer) rimane in effetti anche qui solo un isolato momento di (stra)ordinaria follia, poiché successivamente (accettando così passivamente le conseguenze del suo agire), l’uomo tornerà disponibile a sottomettersi al padre, sergente di polizia, e sopratutto ai suoi principi piatti e conformi incapaci di confrontarsi con  i sentimenti e le passioni, ma forti di un rigore che li rende monoliticamente certi e inappellabili come macigni.

Viceversa invece, gli stessi tragici avvenimento incideranno marcatamente sulla ragazza, la muteranno così radicalmente, da indurla a costituirsi per scagionare il poliziotto quasi in uno sforzo di purificazione che non sarà né momentaneo né fine a se stesso, ma che segnerà in positivo persino il suo futuro (che si definirà positivamente nel finale con il ricongiungimento, al termine del periodo di detenzione,  con lo stesso Karl che l’ha attesa con riconoscente dedizione).  E anche la tematica della “redenzione” è un altro particolare che avvicina il film alle altre opere “espressioniste”  di e sulla strada (La strada di Grüne,  Dirnetragoedie – Tragedia di meretrici di Bruno Rahn, ecc.) per   la sua significazione simbolica un pò idealizzata (in Asfalto la strada accompagna, spesso contrappuntandoli, tutti i momenti di maggiore drammaticità della vicenda, facendola conseguentemente diventare a  sua volta protagonista e forza propulsiva del messaggio, come se il regista intendesse riverberare in essa ogni speranza di amore sincero).

E’  la strada infatti che accompagna in Asfalto tutti i protagonisti nel fluire normale della loro vita e negli sconvolgimenti che si verificano quasi improvvisi, modificando scansioni e prospettive a seconda dei momenti e delle necessità narrative: il ritmo è fervido, alacre nella primissima parte del film, quasi documentaria nell’impianto molto simile a quello immaginato da Ruttmann per il suo Berlin, con il caos esasperato dei movimenti, il gioco delle gambe, lo scorrere tumultuoso del traffico delle automobili, ma diventa invece meno disordinato e confuso, lentissimo e discreto, quando la cinepresa è concentrata nella definizione dei personaggi, per tornare ad assumere i toni violenti dell’esasperazione quando le passioni si scatenano.

Il contrasto tra la piatta e meccanica uniformità della vita quotidiana contrapposto con sapiente maestria con quelli più “furibondi” dell’esplosione dei sentimenti, risulta cosi molto efficace e penetrante, incide in profondità, e questo proprio grazie  ad una dosatura delle carrellate e delle pause che cadenzano l’opera con una singolare andatura sincopata fra le più innovative ed accorte, del periodo.

Un altro elemento importante e al quale è necessario prestare particolare attenzione, è poi proprio il gioco delle luci, questo sì direttamente derivato dalle esperienze culturali legate all’espressionismo citate all’inizio. Vale la pena allora di soffermarsi, nel considerare gli elementi più importanti e vitali dell’opera, proprio sulle tinte chiaroscurali fredde e crudamente stagliate delle inquadrature, che creano lo sfondo alla plastica uniforme e quadrata del poliziotto e al movimento fluido e molle dell’avventuriera (Luigi Rognoni).

Soprattutto mi sembra però degna di considerazione anche quella sorta di ideale continuità con gli allucinati protagonisti del Caligari dei più anonimi personaggi piccoloborghesi qui rappresentati e del loro “modus operandi”, nel loro rifiuto di sottostare passivamente all’autorità costituita e nella perplessità rivoltosa espressa  rispetto all’ordine precostituito (una traccia peraltro  più o meno rilevabile in quasi tutti gli ultimi film realizzati nel periodo della Repubblica di Weimar).

Forse in questo caso la rielaborazione dei drammi da strada (è ancora Krakauer a definirli così) giocati sul contrasto fra le certezze familiari e i pericoli delle tentazioni mondane tanto cari al movimento, è meno significativamente interessante e appassionata che in altre pellicole del periodo ma rimane inalterata e al suo attivo, la capacità del regista di far convivere e fondere fra loro la solida tradizione produttiva più conformizzata dell’Ufa, responsabile del finanziamento, con le conquiste dell’avanguardia, qui definire attraverso suggestivi chiaroscuri, sovrimpressioni e dissolvenze incrociate di rara efficacia, e soprattutto da una inusuale e originale mobilità della macchina da presa  che differenzia in positivo il risultato dalla restante produzione dell’epoca.

Non è un caso insomma che in tempi ormai remoti, quando i valorosi cineclub  erano chiamati a realizzare organiche e ragionate rassegne sul cinema espressionista tedesco, includessero nel programma quasi sempre anche questo titolo, pur non dimenticando di ricordare che – parente prossimo della corrente - si tratta in effetti di una pellicola  che le potrebbe essere persino contrapposta, facendo invece parte  di quella parallela che intendeva recuperare una realistica visione delle cose, definita appunto “della nuova oggettività”.

Sulla trama

Un poliziotto, colpevole di aver ceduto alle grazie di una ladra che avrebbe dovuto portare al commissariato, uccide il rivale che li ha sorpresi insieme e viene per questo arrestato dal padre, anch’esso poliziotto, ma viene scaglionato dall’amante con la quale si ricongiunge positivamente nel finale.

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