Regia di Amos Gitai vedi scheda film
In una piccola oasi di Jaffa sorge una piccola baraccopoli in cui convivono serenamente arabi e ebrei. Si tratta di un’isola lontana dai drammi divisionistici che interessano l’intera regione, contraddistinta da una pacifica convivenza che apparire utopica agli occhi di una giornalista del posto, arrivata in cerca di una notizia da raccontare. Con la figura della reporter a far da punto di vista esterno e da guida per lo spettatore, Ana Arabia di Amos Gitai ci immerge in un contesto in cui ciò che conta non è la religione di appartenenza ma i valori in cui si crede fortemente, quelli tradizionali della comunità e non quelli progressisti del consumo, della politica e della religione.
In un lembo di terra costantemente minacciata dall’edilizia sempre più invasiva ed invadente, si sopravvive grazie a vecchi lavori: agricoltura, pesca e rivendita caratterizzano la vita di uomini e di donne il cui concetto di integrazione passa per quello di fratellanza e solidarietà. Come in una tribù retta dalla figura degli anziani, la baraccopoli mescola vita disparate e leggende metropolitane con il desiderio di autoesclusione da un mondo in balia di prepotenti e violenti che non riescono ancora a capire che arabi ed ebrei sono figli dello stesso destino di esodo e peregrinazione.
Girato con un unico piano sequenza, Ana Arabia ha nelle parole e nella struttura del racconto circolare il suo punto di forza. Spesso sorretto da una recitazione al minimo (la protagonista Yuval Scharf non può certo essere definita un modello di recitazione), Amos Gitai ricorre alla fiction per documentare, finendo però con l’assumere in maniera difettosa una posizione e sposare sottilmente una prospettiva interna, dal momento che le varie testimonianze tendono più a resocontare l’integrazione degli arabi in un mondo di ebrei piuttosto che viceversa.
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