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Miss Violence

Regia di Alexandros Avranas vedi scheda film

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La recensione su Miss Violence

di amandagriss
8 stelle

Il pianto del coccodrillo.

Voglio pensare che l’opera seconda del regista greco sia un’iperbole, un modo estremo di raccontare la nostra società dominata da una sempiterna mentalità maschilista, applicata alla realtà quotidiana, alle vite di persone (soprattutto donne) comuni, ordinarie, che non hanno nulla o di più rispetto ad altre. Estremizzazione, certo, ma senza necessariamente escludere l’eventualità che ciò che accade sistematicamente -di generazione in generazione- nell’anonima famiglia protagonista della storia succeda realmente; chi può dire con tutta franchezza cosa avvenga ogni giorno da sempre nel nostro mondo, di quali nefandi atroci delitti la nostra sciagurata umanità si macchia da tempo immemore all’insaputa di tutti? Il film, agghiacciante nel suo sguardo freddo, quasi scientifico, percorre la strada dello scavo oltre la parvenza della classica famigliola felice, increspa -sequenza dopo sequenza- la superficie piatta e liscia di esistenze che paion liete e armoniose, sovverte e frantuma l’ordine apparentemente perfetto delle relazioni interne. Destabilizza, elude, insinua. Inizialmente attraverso un’ambiguità maligna, carica di tensione, per arrivare, poi, al totale smantellamento della ben costruita situazione di facciata, portando alla luce il marcio latente, ripugnante e scioccante, da tempo sedimentato. Le sfumature di grigio di cui è fatta in prevalenza la realtà (come il sangue versato sul marciapiede sotto casa a inizio film) si stemperano repentinamente lasciando il posto a tonalità accese, a cromatismi netti, decisi, ben definiti. Inequivocabili. Insostenibile è la lampante verità sotto i nostri occhi. Eppure chi osserva ‘da fuori’, pur guardando, non riesce a vedere. O non vuole vedere. O immaginare, sebbene covi il dubbio, che la Signora Violenza condivida il proprio stesso pianerottolo o sieda in una sala d’aspetto di una scuola, di un ospedale, di un luogo di lavoro, alla scrivania di un commissariato, sul divano di casa. Cordiale e sorridente, bene educata ed ospitale, inappuntabile vicina di casa, amorevole e premurosa colonna portante di una famiglia che ha scientemente creato per esercitare su di essa il suo laido perverso malato potere di padre padrone. Famiglia creata per essere distrutta con calcolata lucidità, tenuta in pugno giocando la vile carta del ricatto economico: assicurazione di ferro per un incrollabile solidissimo status quo retto sull’elementare concetto di sopravvivenza (avere un tetto sulla testa, cibo, una vita ‘normale’) e nutrito dalla pratica costante, di giorni dopo giorni e dopo giorni ancora, sempre uguali e sempre tutti ugualmente tremendi per un tempo pari ad una vita intera, di sradicare gli impulsi vitali. Nessuna soluzione di continuità, nessuna speranza all’orizzonte, nessuna fede a cui aggrapparsi per credere che ci sarà qualcosa o qualcuno in grado di mettere la parola fine a questo massacro privato che gira, rigira e si contorce su se stesso, che non conosce sbocchi, vie d’uscita se non quelle che un balcone di casa può offrire. Annullamento della volontà, del pensiero, dell’istinto a reagire. Puro meccanicismo. Perpetuo logorìo annichilente che a lungo andare trasforma esseri umani in apatici automi a servizio esclusivo del padrone di casa. Qui si è già dentro al baratro e non sul ciglio di esso. La lotta per non piegarsi, per non soccombere non esiste. Si è già vittime in partenza. Si è già schiavi dalla nascita. Mortificati succubi silenti. Sottomessi per atroce destino. Segnati prima di venire al mondo. Essere e mantenersi in vita è solo una questione di inerzia, di istinto primordiale, che non contempla la ragione, stritolata, devastata, annientata. Sopravvivere all’inferno, è questo che conta, soprattutto se l’inferno è la propria casa, con le sue mai tanto spesse e solide quattro mura che incastrano, attanagliano, soffocano, isolano dal resto del mondo, dalla salvezza che forse è là fuori, oltre quella maledetta porta, chiusa a tripla mandata, per esser certi che nulla, nemmeno un respiro, trapeli all’esterno. Perché quello che conta è salvare le apparenze, sempre e comunque. Sorridere felici davanti a un obiettivo.  


 

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