Regia di Martin Provost vedi scheda film
Non sono presenti nei crediti, ma si sente l’ombra di grandi sceneggiatori come Pierre Bost e Jean Aurenche dietro Violette. Chiaramente attraverso le forme di un biopic dove alla classicità della scrittura si accompagna un lavoro fisico sul corpo, quello di Emmanuelle Devos. Del resto, Martin Provost aveva fatto un’operazione simile su quello di Yolande Moreau in Séraphine. L’attrito tra desiderio, frustrazione e disperazione sembra però essere programmatico. Violette Leduc cresce con la presenza di una madre oppressiva e nel dopoguerra incontra Simone de Beauvoir, con la quale allaccia un rapporto a tratti difficile e tormentato, ma che fa emergere le sue capacità nella scrittura. Le lettere, la parola, restano sullo sfondo. Niente magie à la Truffaut di Le due inglesi o l’ultimo immenso Desplechin di Trois souvenirs de ma jeunesse. Il cinema di Provost sembra essere spesso ingabbiato in una compostezza formale che Violette vuole nascondere, soprattutto nella parte iniziale. Il rigore soffocante, fortunatamente, a tratti mostra le sue crepe. Dopo aver oltrepassato il bianco e nero con pallida citazione di La corazzata Potemkin di Ejzenstejn (tentativo fallito, dove non c’è il cinema dietro il cinema), le allucinazioni di Violette e i dettagli di Simone de Beauvoir visti come in soggettiva scuotono il film dal suo persistente grigiore. Resta soprattutto la prova di una convincente Sandrine Kiberlain, che prevale sulla Devos.
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