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Ida

Regia di Pawel Pawlikowski vedi scheda film

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La recensione su Ida

di giancarlo visitilli
8 stelle

Un capolavoro in bianco e nero. Una guerra dichiarata alle tonalità scure. La magnifica presenza dei chiaroscuri che rimandano alla migliore bellezza della spiritualità. Quella che trapassa le religioni e rimanda al vero senso del sacro.

Meraviglia l’ennesimo lavoro del regista  documentarista polacco, Pawel Pawlikowski, autore di grandi opere che lo hanno visto come vincitore di svariati premi. Suoi sono film come Last Resort (2000), My Summer of Love (2004), e che ora torna con la sua ultima fatica, il bellissimo Ida.

Nella Polonia del 1962. Anna è una giovane orfana, cresciuta tra le mura del convento dove sta per farsi suora. Poco prima di prendere i voti, apprende di avere una parente ancora in vita, Wanda, la sorella di sua madre. L’incontro tra le due donne segnerà l’inizio di un viaggio alla scoperta l’una dell’altra, ma anche dei segreti del loro passato. Anna scopre infatti di essere ebrea: il suo vero nome è Ida, e la rivelazione sulle sue origini la spingeranno a cercare le proprie radici e ad affrontare la verità sulla sua famiglia, insieme alla zia. Alla fine del viaggio, Ida si troverà a scegliere tra la religione che l’ha salvata durante l'occupazione nazista e la sua ritrovata identità nel mondo al di fuori del convento.

Pare che la difficoltà maggiore per il regista sia stata la scelta del cast, soprattutto in rapporto alla selezione del ruolo principale. Dopo aver esaminato oltre 400 attrici, Pawlikowski ha scelto per Agata Trzebuchowska, una perfetta sconosciuta del set con nessuna esperienza di attrice. Interprete credibile e di una bravura d’eccezione.

Ida è innanzitutto un film sulla memoria, il tentativo di recuperare un mondo, un paese, la Polonia nel caso specifico. Lo si comprende dall’esemplare forza descrittiva delle immagini, mediante un uso della fotografia (?al e Lenczewski), attenta alle ombre, a ciò che sta al di là di ciò che appare. Le ombre immaginate diventano i fantasmi reali che, man mano che ci si addentra nella storia, acquisiscono corporeità e immagine. Nel frattempo, quello che appare da subito è un senso di umanità alle prese con il doloroso senso del proprio passato.

Ida non è solo costruito per immagini, anzi, è soprattutto silenzi, che sospendono i dialoghi, fomentando le attese. Gli sguardi di tutti i protagonisti sono permeati di una profondità che allude alla lungimiranza di una storia che continuamente si rinnova fra passato e presente. Nonostante siano tanti i colpi di scena, tutti, però, hanno una loro logica giustificazione. La costruzione é tutta incentrata a mettere in atto uno straordinario dramma intimo, che esplora le contraddizioni fede/laicità, presente/passato, sacro/profano. Sebbene, l’unica profanazione evidente, alla fine, poi, resti quella della storia. Senza retorica, mediante una regia equilibrata e costruita con l’essenzialità, Pawlikowski offre un viaggio nei postumi dell’odio, che alternano la presenza di continui primi piani silenziosi a campi totali in cui i luoghi e le figure umane sembrano perdere la loro consistenza.

Anomala ma bellissima anche la scelta del formato, quello delle origini, della pellicola 35mm, scelto dal regista per evitare l’epicità del racconto e contribuire all’etica della visione, prediligendo quel genere di pietas umana che evita il retorico sentimentalismo, scegliendo la verità. L’unica che renderà libera l’umanità, a prescindere dalle condizioni sociali, religiose, politiche o imposte dal peggior suo nemico, l’uomo.

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