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La sedia della felicità

Regia di Carlo Mazzacurati vedi scheda film

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La recensione su La sedia della felicità

di OGM
5 stelle

Un déjà vu mancatoA chi avesse in mente il film  del 1938 intitolato 13 Stühle - un sempreverde della comicità germanica, interpretato dal mitico Heinz Rühmann – la visione di questo film è sconsigliata. Carlo Mazzacurati, che in altre occasioni ha saputo catturare in maniera amarissimamente indovinata il colorito malessere di una certa provincia italiana,  questa volta non è riuscito a trasportarci nel solito sogno poeticamente nebbioso del suo Nordest. Spiace non ritrovare, in questa commedia decisamente opaca,  quel tipico ritratto umano sempre un po’ falsato, reso appositamente grottesco per includervi frammenti visionari di un ambiente in crisi, eppure restio al disincanto. Il tema della caccia al tesoro – in questo caso, di una sedia imbottita di gioielli, facente parte di un set di otto esemplari identici, ormai sparsi ai quattro venti – consentirebbe di percorrere il territorio in lungo  e in  largo, attraversando luoghi e situazioni dei tipi più vari, non necessariamente legati da un filo logico; in questo modo, mentre si potrebbe tracciare lo spaccato di un particolare contesto storico o geografico, anche i personaggi, posti di fronte a sfide di ogni genere, sarebbero costretti a palesarsi in tutte le loro virtù e debolezze. Ma ciò che – sulla scia del romanzo russo intitolato 12 sedie   -  è avvenuto sugli schermi tedeschi di settantasei anni fa, purtroppo non si ritrova, oggi, in quest’opera che sembra si sia lasciata prendere dal gusto del cliché immediatamente spendibile, che (e)semplifica senza contestualizzare, né elaborare criticamente. È  quasi impossibile riconoscere gli accenti ombrosi della nostra realtà contemporanea in una storiella frettolosamente imbastita su una rassegna di mali moderni somministrati in pillole, dal caso del padre separato che dorme nel proprio negozio, a quello della giovane imprenditrice tradita dal compagno e perseguitata dai creditori. I due protagonisti – un Valerio Mastandrea ed una Isabella Ragonese sottoutilizzati, ed uniti in un’accoppiata non proprio vincente – sono gli (anti)eroi di un’avventura poco brillante, inutilmente puntellata da flash cabarettistici di bassa lega, che, sorprendentemente, spesso oltrepassano persino lo stereotipo e la caricatura per approdare alla farsa grossolana da cinepanettone.  Non bastano una scrittura fluida ed una regia impeccabile a salvare l’opera, sia pur complessivamente godibile, dai ripetuti scivolamenti nel ridicolo e nel prevedibile. La fantasia è assente, il ritmo langue, e non c’è proprio modo di scorgere, oltre la fragile superficie dell’intrattenimento spicciolo, quell’adorabile sottofondo di verità interiore che tarda ad emergere, che ama fare la preziosa, e che costituisce la grande anima di piccoli capolavori come Il toro o La lingua del Santo.  A meno di non voler accettare il fiabesco happy ending di questa love story sommersa come una versione, oculatamente adeguata ai tempi, del sublime concetto di rivelazione.   

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