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Sils Maria

Regia di Olivier Assayas vedi scheda film

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La recensione su Sils Maria

di EightAndHalf
9 stelle

Il Maloja’s Snake è quello strano fenomeno atmosferico che si verifica quando a Sils Maria si preannuncia il cattivo tempo, e da alcuni punti di vista è possibile osservare il serpeggiare nella valle di un gruppo di nubi, che sopravanzano sinuosamente, fino a invadere tanto più è possibile, gettando tutto nella nebbia. È da questo spunto suggestivo che parte una delle linee di lettura di questo capolavoro trasversale che è Clouds of Sils Maria di Olivier Assayas, uno sconcertante e pluristratificato dialogo metatestuale fra le arti, fra i tipi di cinema, fra le falde del tempo, fra realtà e rappresentazione, fra verità e finzione. Assayas riesce a lambire tutte quante queste tematiche inserendole nel tessuto filmico sinuosamente e silenziosamente come il serpente di Maloja, che scandaglia i valichi alpini così come il film scandaglia le possibilità dell’Arte tutta. Un film di trasfigurazioni e di trasformazioni continue, sorretto da una regia che si rende invisibile sia visivamente che teoricamente, ma partecipa attivamente come terzo (o quarto?, o quinto?) protagonista di questa immensa pellicola.

 

 

È già sulla superficie che Sils Maria riesce ad agire prepotentemente sull’attenzione spettatoriale. Le sequenze dialogiche, per quanto lunghe o riflessive, gettano fin dall’istante iniziale chi osserva in una straordinaria tensione che potrebbe essere rappresentata come un filo dritto e rigido che sembra sul punto di spezzarsi. Il nervosismo del personaggio di Valentine, che cerca sul treno di parlare al telefono e non vi riesce, all’inizio, è un nervosismo che vivremo costantemente, nel film, anche quando il treno si fermerà, e le nubi di Sils Maria ci avranno agguantato, sommerso, in una calma bianca.

 

Dirette in Svizzera per ricevere un premio, colte alla sprovvista dalla notizia della morte di un noto drammaturgo, Wilhelm Melchior, che avrebbe dovuto partecipare alla premiazione, l’attrice Maria Enders e l’assistente Valentine, dopo un breve soggiorno in albergo, si trasferiscono nell’abitazione del defunto, dove questi ha lasciato la moglie Rose e nei pressi della quale si è suicidato (o potremmo dire, è semplicemente scomparso, “in mezzo al nulla”). Maria nel frattempo decide, a malincuore e piena di dubbi, di accettare la parte di Helena in un’opera dello stesso Melchior, proprio Maloja’s Snake, nella quale la giovane Sigrid costruisce con la più grande Helena un rapporto sentimental-amoroso che spingerà Helena al suicidio. Il problema vero di Maria è che lei aveva interpretato Sigrid anni prima, e adesso non riesce a entrare nei panni del personaggio che, lei come Sigrid nell’opera, biasima per ingenuità e stupidità. Valentine, durante le prove, fa da controcampo alle idee di Maria, ricordandole che invece Helena rappresenta un’umanità aggredita dalla passione  che Sigrid utilizza come strumento o arma da fuoco nei confronti di chi è in grado di sottomettere. Per Valentine in Sigrid non c’è forza, ma arroganza.

 

 

Assayas sovrappone le aporìe. Innanzitutto pone come primo strato la duplice lettura del rapporto fra Helena e Sigrid come rispecchiato nel rapporto fra Maria e Valentine, ponendo subito il quesito sulle gerarchie. Quale dei due rapporti è più vero? Sembrerebbe una domanda superflua, ma è Valentine a mettere la pulce nell’orecchio quando pronuncia una delle sue battute fondamentali, cioè che “il teatro è più vero della vita”, probabilmente per come riesce ad astrarre ed estrarre i sentimenti più profondi dell’essere umano e a renderli centro di uno sguardo lucido e attento a cosa essi siano, e dunque a cosa sia in fin dei conti l’uomo. Maria e Valentine vivono in una supposta realtà, resa astratta dalla strana ambientazione in cui si ritrovano, e dalla possibilità di non rimanere isolate da tutto: il loro soggiorno a Sils Maria è costellato di telefoni cellulari, iPad, internet, Google, autoveicoli, limousine. Paradossalmente, a Sils Maria lo stare al mondo finisce per rendere le figure più evanescenti, meno palpabili, azzerando il grado più basso (più alto) della percezione del reale: la sensazione. Assayas trasfigura la totalità delle sensazioni in quesiti puramente formali, adottando la dissolvenza in nero per interrompere ogni sequenza, e ogni “parte” del film; fa muovere i personaggi come su una sgangherata scacchiera, a volte in posa a volte su traiettorie differenti rispetto a quelle del punto di vista registico; a volte fa letteralmente “scomparire” i personaggi, da un lato per sottolineare il rapporto con l’opera Maloja’s Snake di cui si sta trattando (Helena alla fine del dramma si suicida nel fuoricampo, di fatto scompare, spingendo Valentine a descrivere il finale dell’opera come “ambiguo”), dall’altro lato per mostrare l’impalpabilità in cui i personaggi lentamente scivolano, o in cui sono già da tempo scivolati. Si vedano le sequenze paesaggistiche: nonostante la musica classica di accompagnamento, che le rendono apparentemente gradevoli e piacevoli, è il sentimento “romantico” a prevalere, e nonostante l’aria tersa, i personaggi in quella natura sembrano “affogare”. Assayas, in tal senso, ripete una sequenza due volte, una volta con Maria e Rose, una volta con Maria e Valentine: le donne, in entrambe le situazioni, si ritrovano a camminare nella direzione del luogo in cui Wilhelm si è ucciso, e per giungervi sono costrette a innalzarsi sulla cima di un monte. La mdp non tallona i personaggi, ma li attende, come se fosse Wilhelm ad attenderle in quel non-luogo, e il punto di vista da lassù alterna una visione nitida degli esseri umani a una visione offuscata, addirittura nulla, degli stessi. I personaggi, muovendosi, scompaiono dietro le rocce, apparendo poco dopo. Lo stesso avverrà a Maria subito prima dell’inizio dell’epilogo: in una distesa erbosa che sembra uniforme, la sua figura si inserisce in un’insenatura che lascia intendere il dislivello, come se la sua figura fantasmatica sondasse il terreno, e illustrasse allo spettatore una certezza sul paesaggio, ma un’incertezza sul proprio sguardo. Dall’alto, da lontano, quegli esseri umani non hanno identità, sono in puro movimento, fanno parte del paesaggio, ma che quella sia Maria o Helena non ha importanza.

 

 

D’altronde è in una sequenza particolare (a dirla tutta, nel succedersi di tre sequenze) che il valore fantasmatico dei personaggi assume un ruolo focale. Nella prima sequenza, Valentine è in macchina, forse di ritorno da un appuntamento, e percorre nella nebbia un tornante dopo l’altro. Assayas sovrappone le immagini, immergendo Valentine nel verde opaco del paesaggio, e nel grigio scuro dell’asfalto.  Alla fine Valentine sarà costretta a uscire dall’auto, visibilmente confusa. Subito dopo, nella seconda sequenza, Maria sbircia dentro la stanza di Valentine, e vede la giovane ragazza mezza nuda, ne contempla le fattezze. La lasciamo lì, a scomparire nella dissolvenza in nero. Subito dopo, appare il terzo personaggio più importante nel film, Jo-Ann. Lei è la nuova scelta del regista del ri-adattamento, Klaus, per interpretare Sigrid. In questa terza sequenza Jo-Ann interpreta il personaggio di una donna del futuro, in un blockbuster hollywoodiano, e appare prima sfocata, poi nitida, a fuoco, in alta definizione (scopriremo poco dopo, addirittura in 3D). In queste tre sequenze, il film raggiunge un corto-circuito: oltre a confrontare i personaggi con gli ambienti che li circondano, pone un’ulteriore gerarchia, quella della visione. Valentine è confusa, nell’auto, a malapena può essere guardata, nella confusione delle immagini. Maria osserva Valentine, scoprendone la corporeità e la nudità. Jo-Ann è guardata da Valentine e Maria, al cinema. Le giovani sono oggetto di osservazioni, Maria è trascurata, sempre nell’atto della voyeur. E’ anche filmicamente che siamo in grado di costruire la frustrazione di Maria, costretta ad affrontare l’invecchiamento e il passare (reiterato) del tempo.

 

 

Può apparire paradossale che il delineare la corporeità di Valentine coincida, alla fine, con la sua fantasmizzazione in dissolvenza. Eppure non è diverso da ciò che abbiamo detto prima dei personaggi nel paesaggio: a fantasmizzarsi non è la figura umana in sé, ben presente nel film, ma qualcosa che diamo per scontato, per concreto, e che invece concreto non è, l’identità. La capacità, dunque, di riconoscere i personaggi. Così come Helena, secondo l’interpretazione di Maria, utilizza Sigrid come arma per porre fine a una sofferenza ben più anziana di Sigrid, preesistente, allo stesso modo il gioco di identità del film usa come strumento il corpo per generare scompiglio, scompaginare un costrutto apparentemente semplice, qual è quello pirandelliano della confusione con il proprio personaggio. Per quanto parliamo di mondi distantissimi, il dialogo di Sils Maria è a volte confrontabile non solo al Maps to the Stars cronenberghiano, ma anche al lynchano Mulholland Drive, quando Naomi Watts recita, e noi ci scordiamo che sta recitando. Un paragone già proposto nel saggio su Sils Maria di Fabio Fulfaro e Lorenzo Baldassari su Lo specchio scuro. Sils Maria ci permette di posizionarci in una dimensione altra, senza fare altro che mostrare i corpi umani, e le loro interiorità trasfigurate nelle parole, senza sensazionalismi visivi, o respingenti manierismi. Un tradurre la fissa esteriorità in complessità interiore che può, con un po’ di sforzo, ricordare il Gertrud dreyeriano, specie per l’utilizzo che si fa della parola.

 

 

È nel mostrare le nudità di Valentine che Maria assume lo sguardo che Helena ha su Sigrid, tale da permetterci di inserirci nel tragico confronto fra realtà e finzione (benché non sia mai chiaro da che lato stia la realtà, e da che lato la finzione). Ed è nella finale sparizione di uno dei personaggi che si capovolge il racconto dell’opera di Melchior. Ricordiamoci però che Maloja’s Snake è un’opera teatrale, e come tale utilizza la parola come mezzo espressivo, in maniera altrettanto importante quanto lo è la presenza scenica. Il rapporto fra Maria e Jo-Ann si trasmuta nel rapporto fra Teatro e Cinema. Il Cinema è più alla portata di tutti, industrializzato, “paparazzato”, capace di definire snob l’apprezzare più la musica classica che il rock (il dialogo fra Jo-Ann e Christopher).  Il Teatro di volta in volta rivive, ed è volenti o nolenti stretto nella morsa del serpente dell’Eterno Ritorno nietszchiano, e costretto a confrontarsi con la fallibilità umana, e la finitezza degli esseri umani. Il Cinema, invece, quello vero (fuori dai meccanismi hollywoodiani, industrializzanti) eterna, rompe con l’Eterno Ritorno. Arriva ad aprirsi e a contemplare direttamente il Serpente.

 

Questo non minimizza il Teatro, ma esalta le possibilità del Cinema, in un film che può sembrare erroneamente pura teoria. Quando vediamo l’allestimento del teatro, Assayas non resta fisso come lo spettatore in platea, ma si muove, e segue Jo-Ann che distribuisce dei fogli da un ufficio all’altro. Col Cinema siamo in grado di vedere cosa c’è dietro, e cosa c’è oltre, interrompendo la finzione, oltrepassando la barriera. Ed Assayas compie proprio questo passo, unendo la “verità” del Teatro con la palpabile realtà del Cinema: il grado zero della rappresentazione. Stavamo guardando un film? Sils Maria è un gelido oblio che vibra delle emozioni umane, non nel loro essere studiate, ma nel loro essere vissute.

 

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