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Test

Regia di Chris Mason Johnson vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Test

di logos
7 stelle

In pieno 1985, anno in cui viene realizzato il test HIV, una compagnia di danza a San Francisco continua nelle sue prove per rappresentare in chiave metaforica la censura dell’omosessualità. I ballerini, infatti, devono danzare in modo maschile e teso, per evidenziare la repressione dei loro corpi, che al tempo stesso sprigionano, con scatti e salti veloci, una liberazione ancora impossibile, ma proprio per questo ancor più impellente. E in effetti la libertà circola ancora negli ambienti omosessuali, anche se al risparo dagli occhi indiscreti.

 

Il protagonista, Frankie, fa parte di questa compagnia di danza, ma è solo il sostituto della figura principale, perciò durante le prove lo vediamo emulare il primo danzatore, mentre gli altri proseguono nel loro ruolo. Già per questo solo fatto, Frankie rappresenta una figura ai margini di tutto un mondo. E’ omosessuale, ma al tempo stesso teme di continuare ad esserlo, perché sensibile alle informazioni che si stanno diffondendo su HIV e AIDS, veicolate da media-apparato che vanno subito a bersagliare proprio gli omossessuali, scatenando un'omofobia paranoide in perfetta sintonia con gli aspetti più cupi degli anni Ottanta.

 

L’omofobia finisce per insinuarsi anche nella testa di Frankie, ben evidenziata nel rapporto che intrattiene con il suo collega di danza, Todd. Mentre Frankie è biondo, tutto meticoloso e ordinato, Todd al contrario, nel suo spirito sudamericano, si gode la vita così come gli capita, in modo randagio. Avendo come corrispettivo la figura di Todd, Frankie inizia a realizzare un percorso esistenziale doloroso sul proprio stile di vita. Nonostante abbia incontri occasionali, fa in modo che si interrompano, quasi per allontanare da sé l’eventualità del contagio. Inizia a controllare ossessivamente il suo corpo, cercando di catturare i primi segnali dell’AIDS; non solo, è più attento alla pulizia domestica, e inizia a diffidare della stessa danza, del sudore che comporta, del contatto che vi è tra i corpi in movimento. Ma nel percorso di Frankie vi è anche la resistenza contro questa ossessione. Perciò più cerca di tenere distante Todd più gli si avvicina.

 

Il punto di svolta si ha quando il primo ballerino si ammala e deve sostituirlo. Mentre tutto il gruppo teme per la rappresentazione da mettere in scena di fronte a un pubblico reale, Todd è l’unico che è fermamente convinto che Frankie è all’altezza della situazione. E in effetti lo spettacolo riscuote un indubbio successo grazie all’energia che Frankie imprime nella danza, perché guarda caso tale danza rispecchia in toto il suo stesso stato d’animo, in conflitto inestricabile tra repressione e liberazione. Senza tanti dialoghi, ma attraverso grandiosi messaggi non verbali e corporei, Todd comprende tutto questo, e invita Frankie a uscire insieme la sera. Bella è la scena in cui fatti di estasi iniziano a parlare della follia, dimenandosi in discoteca come veri e propri dannati beati. Eppure Frankie vuole andare fino in fondo alla questione, decidendo di fare il test. L’esito negativo lo libererà dalle paure, lasciandogli finalmente la possibilità di stare insieme a Todd, anche lui negativo al test.

 

Sulla sceneggiatura scorgo pregi e difetti. Il grande pregio è senza dubbio nell’aver inquadrato in modo magistrale l’omofobia degli anni ottanta in occasione della comparsa letale dell’AIDS; in più evidenzia tutta l’ingenuità inquietante di allora circa il contagio, con la paura del contatto con il sudore o la saliva altrui, ma anche tutta la dimensione psicologica di attesa e di angoscia circa il lancio del test: quali sono le sue conseguenze riguardo al controllo di informazioni delle persone affette? Ne verranno a conoscenza i datori di lavoro? Non ci sarà il rischio di una vera e propria emarginazione? Era l’epoca in cui farsi fare un test HIV significava già di per sé essere un omosessuale, non soltanto perché di fatto gli omosessuali furono i primi a farne le spese in termini di etichettamento, ma anche in termini effettuali. Era un’occasione unica e rara per i mass media e il sistema di potere: coincidenza tra realtà e etichettamento significava fare dell’omofobia un’arma risolutrice, non solo contro gli omosessuali in genere, ma anche per ripristinare quei valori oltraggiati dagli anni ’60 in poi. Perciò significava farla finita con gli hippies, con la bit generation, con le droghe, l’antiproibizionismo e l’antirazzismo. Significava insomma chiudere definitivamente con i trent’anni d’oro e lasciare a briglie sciolte il liberismo sbirro a qualunque costo.

Tutto questo il film lo dice in modo minimale, saggiando i turbamenti di Frankie, nel suo desiderio di concedersi alla musica e all’arte, ma frenato dal suo continuo essere informato sul pericolo imminente dell’epidemia, dando la caccia al topo che si aggira per la sua casa. E’ anche prezioso il momento inaspettato in cui il medico gli riferisce la sua negatività al virus e il suo pianto. Il pianto che ne scaturisce, infatti, non è soltanto liberatorio. In esso trapela anche un senso di colpa, la sindrome del sopravvissuto. E’ solo un accenno, ma che secondo me poteva essere maggiormente approfondito. Mi sarebbe piaciuto pensare a un altro finale: Frankie e Todd stanno per fare l’amore, ma a un certo punto Todd lo ferma e gli dice: “proprio adesso vuoi scopare, ora che sai che entrambi siamo negativi?”. Mi rendo conto che la mia è un’esagerazione, ed è troppo facile cambiare le sceneggiature quando non si sa nemmeno come costruirne una, ma quel che voglio dire è che qui il film cede in tensione, si ammorbidisce in un tenero abbraccio finale, di una coppia libera, per ora, dall’incubo. Un incubo che invece ha cambiato la storia dei nostri diritti e costumi, delle nostre abitudini. Ci ha reso più passivi in tutto, anche in ambiti apparentemente molto distanti dalla sessualità. Nonostante il lieto fine, il film comunque non delude. Perché anche nel finale c’è ancora un’allusione: “e se tutto questo incubo”, dice Frankie a Todd “ci renderà tutti monogami? Come si fa a essere monogami per tutta una vita?  E se tutto questo è un Test?” . Sto citando il virgolettato a braccio e non testualmente, però è un’allusione forte, che ci riporta al discorso più strettamente politico del controllo sulle esistenze, tematica sfiorata amabilmente e non approfondita.

 

Se considero poi la bellezza della musiche, delle danze, di cui il regista è davvero un maestro in quanto ex-ballerino, allora il film rende ancora di più. Certo, di per sé è un po’ frammentario, ha dei lampi di genio ma non li sviscera; e tuttavia, nella sua interezza non lascia per niente l’amaro in bocca, anzi… Stimola la riflessione, e in più si lascia vedere per la sua struggente e inquietante tenerezza, perché ci fa proprio vedere come eravamo e come siamo diventati, in un momento in cui tutto era da giocare ancora contro l’austerity.    

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