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Bone Tomahawk

Regia di S. Craig Zahler vedi scheda film

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La recensione su Bone Tomahawk

di scapigliato
9 stelle

Siamo soliti pensare, io per primo, che western e horror siano due generi antitetici – tra l’altro i miei due generi di riferimento. Il primo, è il genere della luce, con un massimo di realismo e un minimo di fantastico; il secondo, è il genere delle tenebre, con un massimo di fantastico e un minimo di realismo. Davanti al dato concreto e alla storia del cinema western non si può certo dire che sia un’equazione che fa cilecca. Tutt’altro. Eppure, non tutti sanno che la frontiera del vecchio, selvaggio e lontano ovest è sempre stata, a partire dai coevi, fonte di stupore, mirabilia, fantastico, misterioso e infine orrorifico. Racconti di Allan Poe o di Ambrose Bierce ne possono essere una conferma. Anche il cinema e la televisione hanno giocato sul tema della frontiera come spazio liminare tra reale e irreale, tra noto e ignoto, tra razionale e irrazionale, riutilizzando gli elementi tematici, le iconografie e i moduli narrativi tipici del genere per racconti dal taglio più enigmatico, cupo, misterioso, al netto dell’apporto crudo del reale, del materico, del terrigno che contraddistinguono certamente l’estetica western.

Non c’è da stupirsi quindi, quando il genere della luce, abbacinante e canicolare, incontra il genere delle tenebre, oscure e fatali. Nel solido film diretto dall’esordiente S. Craig Zahler, precedentemente direttore della fotografia e sceneggiatore, i codici del genere horror si innestano in uno dei tanti moduli western restituitici dalla tradizione, ovvero il rapimento degli indiani, e si amalgamano ad esso fluidamente. Va anche detto che l’apporto horror è limitato alla ferinità degli attacchi e alla natura semi-mostruosa degli agenti di terrore della pellicola. Per il resto il film viaggia su consolidati binari tipicamente western, nell’estetica di base e nell’iconografia di riferimento.

Si sottolinea, con plauso, una certa scelta stilistica del regista. Oltre ad un azzeccato cast, Russell, Jenkins, Fox e Wilson a cui si aggiungono le caratterizzazioni di Sid Haig, David Arquette e Sean Young, il regista opta per uno sguardo distaccato. Come si può notare, non esistono né primi né primissimi piani, tranne sul finale, ma soltanto campi totali, lunghi o lunghissimi. Non c’è, tra l’altro, un serrato montaggio; tutto fluisce classico, con un tempo di lettura dell’inquadratura e della scena superiore al dovuto. In questa ottica, il minuzioso dettaglio degli interni borghesi delle case dei protagonisti, come di altri ambienti della cittadina di Bright Hope, e i lunghi e articolati dialoghi al limite del prosaico, sono da leggersi come scelte linguistiche precise per dotare il cronotopo scelto di un massimo di realismo tale da aumentare il contrasto con l’aspetto più strettamente orrorifico e splatter della storia.

A questo proposito si segnala la bravura del regista nel saper dosare gli agenti di terrore, il coté splatter e il perturbante, evitando che prendano il sopravvento sull’elemento classico western. Anzi, il regista dota le sequenze e gli esistenti specificamente horror di un realismo indiscutibile, forte e terrigno. Nonostante le due ore abbondanti di Bone Tamahawk, questa scelta antispettacolare vince e coinvolge lo spettatore senza annoiarlo. Il personaggio interpretato da Richard Jenkins è già antologico e i dialoghi restano la parte più solida dell’intero progetto: creano azione e aspettative. È un film con i suoi limiti, ma ciò che si condannerebbe a un semplice e puro pop-corn movie, qui invece viene applaudito: la lentezza, la prolissità, la verbosità. Uno dei migliori esempi di western che va oltre il genere confermando la facoltà mitopoietica del genere stesso.

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