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Moebius

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Moebius

di FilmTv Rivista
6 stelle

Catena simbolica elementare, livello metaforico accessibile, dialoghi azzerati. Apparentemente, nulla di nuovo nel percorso di Kim Ki-duk. Il marito tradisce. La moglie, prima di andarsene, evira il figlio in un immediato e istintivo processo di trasferimento di colpa. Il marito, dunque, dona al figlio il proprio membro come pegno per l’espiazione e il risarcimento. Poi la moglie torna - novella signora Kramer - per ribadire l’immancabile tradizione edipica e rinnovare la numerologia familiare (figlio che possiede madre per mezzo del pene paterno: approdo terminale). Segue catastrofe. I sottotesti (edipici, morali) risalgono la corrente, arrivando in superficie consumati e stanchi. A loro subentrano i corpi, significanti primari per l’accesso alla riflessione sul piacere e il dolore che accompagna Moebius. «Tutto il corpo è un organo genitale», e allora il baricentro si sposta dal pene - segno astratto, estratto e sostituibile di soddisfacimento pulsionale - alle sue alternative. Pugnali infilzati nella carne e mossi avanti e indietro come masturbazioni, piedi rovinati con la pietra fino al raggiungimento dell’orgasmo: l’apparato genitale è espanso, dilatato fino alle proprie periferie sadomasochistiche. Ma ciò che di Moebius sorprende maggiormente è la sua presa di posizione estetica, in completa rottura con il percorso estetizzante - sempre più teso alla smaterializzazione del segno grafico - portato finora avanti da Kim Ki-duk. Si inizia con un pranzo ingurgitato in fretta, un amplesso sui sedili di una macchina, un’evirazione con membro divorato sotto i nostri occhi. L’autore coreano sceglie un approccio dal basso rovistando nella spazzatura, negli scarti di un’intera carriera. Il gesto liberatorio è condotto con foga autodistruttiva e sprezzo del ridicolo, attraverso grammatiche di serie z e consapevolezze trash espresse in rincorse demenziali a un pene per strada. Inquadrature frettolose, demolizioni dell’esattezza geometrica, sequenze di sogni impure e materia restituita al suo legittimo proprietario: l’uomo, prima di tutto insieme di muscoli e tendini, emoglobina e sperma. Kim Ki-duk se l’era dimenticato. Ora, ricordandoselo, porge al suo protagonista un ferro (3) da golf da sbattere con violenza nel fuoricampo: svolta programmatica, o soltanto sfogo temporaneo? Di sicuro, un gesto filmico che non ci aspettavamo.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 37 del 2013

Autore: Claudio Bartolini

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