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Moebius

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Moebius

di OGM
10 stelle

La carne piange di piacere, e gioisce di dolore. La frustrazione del mancato possesso si sfoga nel proprio sangue versato, nella pelle che si apre per far entrare una lama affilata in una perversa forma di amore. Una moglie gelosa evira il figlio, colpevole di condividere i desideri maschili del padre. Il padre, colto da un profondo senso di colpa, offre il suo organo riproduttivo per ripagare il ragazzo del danno subito. Intanto, nell’attesa dell’intervento riparatore, gli insegna come trasformare ogni centimetro del suo corpo in una fonte di intenso appagamento sessuale. Per Kim ki-duk il legame affettivo è un marchio a fuoco che non smette mai di dolere, di ricordarci come la dipendenza sia una malattia mortale, che si pasce della propria incurabilità. Sentire male per colpa dell’altro, condividere la stessa sofferenza vale più che scambiarsi parole, perché l’intesa è anzitutto una tacita consonanza di lamenti interiori, di palpiti ansiosi intraducibili in parole, ma sublimabili in un lampo di tormentata intimità. In quella fuga verso una dimensione di pura e passionale irrazionalità, non esistono ostacoli che non possano essere travolti, per poter sconfinare in territori altrimenti inaccessibili, in cui i dilemmi morali si dissolvono per effetto di una imperiosa volontà di essere e di prenderne piena consapevolezza. Estremo è ciò che è sincero fino in fondo, ed espone la sua scandalosa nudità facendone la sorgente di una luce accecante, immune dalle ombrose macchie del dubbio. Il silenzio di questo film, totalmente privo di dialoghi, è parte di quella perfezione sensoriale e cognitiva, nella quale il tutto è la verità assoluta che include il proprio contrario, che è buona e cattiva allo stesso tempo, ugualmente lancinante nell’orgasmo come nella disperazione. Il fremito è troppo rapido e continuo per consentire di parlare, di articolare e distinguere i concetti, e quindi ogni cosa si confonde, in un turbine di emozioni che punta al paradiso mentre resta inchiodato alla terra, come un frullo d’ali che preluda ad un impossibile volo. Ci illudiamo di andare via, abbandonando ciò che ci ha ferito, e invece finiamo per ritrovarci al punto di partenza, ad adorare chi credevamo di odiare, e ad accarezzare le membra che allora avevamo furiosamente massacrato. Così l’impeto di rabbia si converte nel lungo strascico della tenerezza, attraversando l’intero spettro delle gradazioni più tenui, compresa quella del grigiore che sfuma nel buio dell’annientamento. La superficie del nastro di Moebius torna indietro, ricongiungendosi con la faccia opposta: il cerchio si chiude su quel paradosso infinito che è la metafora dell’universo, che progredisce facendo coincidere nascita e morte, fecondità e sterilità, l’esaltazione dell’io ed il suo annullamento tramite la fusione con l’altro. Il vero cinema d’arte ci chiede di partecipare attivamente alla creazione dell’invisibile,  di ciò che si nasconde dietro la realtà, rispecchiandone le indecifrabili contraddizioni: questo film ci risparmia ogni sforzo, portandoci con mano decisa e leggera dentro quel torbido nucleo di mistero, per poi scioglierne i lacci, fino a renderlo vasto e limpido come un oceano.

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