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Sangue del mio sangue

Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film

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La recensione su Sangue del mio sangue

di Utente rimosso (Cantagallo)
4 stelle

Non è che Bellocchio si è sorrentinizzato?


Lo so che non si inizia in modo così grezzo un’opinione sull’ultimo film del regista di Bobbio, lo so che sarebbero più opportune - e più diplomatiche - 10 righe di captatio benevolentiae introduttiva sul regista, sui suoi film precedenti, sulla centralità della sua famiglia, sulla deprecabilità della Santa Inquisizione e molto altro ancora (spunti non ne mancherebbero) prima di poter azzardare, e sperare di farsi perdonare, un giudizio schiettamente negativo su ciò che invece dovrebbe venire prima di tutto e cioè il suo ultimo film “Sangue del mio sangue”.


Non è facile, quando si è di fronte a un autore così importante da essere ormai giunto allo status di maestro con totale libertà di azione, sul quale la stessa critica si produce in acrobazie lessicali pur di non sbilanciarsi o, alternativamente, in elegie autopoietiche che riuscirebbero a confondere anche il più lucido dei saggi, non è facile, dicevo, cercare di tornare alla base dell’approccio, isolarsi e concentrarsi soltanto su ciò che scorre sullo schermo.


Certo, ci si potrebbe togliere elegantemente d’impaccio parlando per ampissimi eufemismi ovvero di un cinema fortemente personale (invero il massimo dell’autoreferenzialità possibile: ci sono il suo paese, il figlio, la figlia, il fratello attore, il fratello scomparso, le due zie zitelle e la moglie al montaggio...), che esalta l’indipendenza semantica dei singoli elementi (cioè sovraccarico dei più disparati argomenti, personaggi, ragionamenti: dal ‘600 inquisitorio, ai falsi invalidi odierni, all’evasione fiscale che non reggono nessun discorso unitario rimanendo totalmente sconnessi), che non teme di sperimentare (questa frase ci soccorre quando siamo ormai al massimo della perplessità), che si nutre della presenza fondante di attori feticcio (cioè attori che lavorano soltanto con lui, come il figlio Pier Giorgio, qui in una parte una e trina, che pur avendo intrapreso la carriera professionale stranamente non desidera fare altre esperienze e pure la figlia Elena, perfetta nella parte di una che non c’entra niente col cinema ma è stata trascinata sul set come dentro una foto di famiglia in cui non voleva apparire) e fa un uso fortemente extradiegetico della musica (ovvero inserimenti strambi e di puro effetto come la cover di “Nothing else matters” nella scena ritratta in locandina). Noi spettatori cosa pensiamo veramente, quello che sta dentro o fuori dalle parentesi? Come lo giudicheremmo se fosse l’opera di un autore sconosciuto?


Una prima parte ambientata in contesto seicentesco, sorretta da una storia di modesto interesse, costruita a tavolino e condotta in modo pedante, lascia posto ad una seconda parte contemporanea la cui solidità mostra presto segni di cedimento per poi deragliare completamente.


Uno dei punti fermi del film sembra essere quello che è stato definito registro “grottesco”, che come tale richiede allo spettatore una maggiore elasticità di ricezione in favore della libertà espressiva dell’autore, ma - ci si chiede - fino a che punto e in cambio di cosa? Il personaggio del pazzo, nel quale il malcapitato Filippo Timi si sforza di soddisfare le richieste del regista senza peraltro riuscire a celare il suo evidente (e comprensibilissimo) disagio, è grottesco o è semplicemente fuori luogo? Il (ridicolo) magnate russo, la moglie del vampiro, la scena della danza nel bar, il dialogo tra vampiro e dentista sull’emissione delle fatture (si ricordi che si era partiti da un processo per stregoneria...), le due patetiche zitelle che scoprono il sesso, sono grotteschi o sono manifestazioni di un cinema che facciamo onestamente fatica a inquadrare? Dove colpisce, in che modo inquieta, quale forza rappresentativa possiede questo esempio di grottesco sconclusionato? Bastano stranezze equamente distribuite lungo la pellicola e nomignoli eccentrici – il conte Basta, il dottor Quantunque – ad aprire le porte dell’allegoria?


Una direzione degli attori orientata all’impostazione accademica, che produce rigidità di espressione e di parola nei personaggi, rende complicato apprezzare i contributi degli attori, certo è che l’unico che riesce a imporre la sua personalità e di conseguenza un certo interesse al suo personaggio è il grande Roberto Herlitzka, davvero un faro al quale guardare in mezzo alla tempesta. Lo stesso volto nuovo e pure interessante di Lidiya Liberman meritava migliori opportunità di espressione, a parte quella perennemente dispiaciuta.


Dispiace doverlo constatare, ma Sangue del mio sangue è un film che vuole parlare di tutto senza riuscire a dire niente, che gioca la carta della stravaganza per coprire la mancanza di peso e di idee, e soprattutto che dello spettatore ha ben poca stima, gli chiede molto e non gli restituisce niente.

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