Regia di Ritesh Batra vedi scheda film
La vita è un ventilatore Oliver
Come pulsa la vita, nella megalopoli di Lunchbox! A Mumbai, 13 milioni di persone a piedi, in bici, su battelli, in treno o in metropolitana fanno funzionare una città-organismo che si muove in maniera rigorosamente finalizzata, con leggi esplicite o implicite che ne governano il funzionamento. Un organismo che può avere vizi che discendono dalla sua costituzione intima e originaria: piccole anomalie che, di tanto un tanto, ne rallentano l'incedere perfetto. Per esempio una donna che si suicida gettandosi nel vuoto con la propria figlia e manda in tilt la circolazione.
Ma se la cellula, o l'individuo, può essere anomalia, l'organismo, o la società, è legge. E in questo contrasto tra nómos e a-nómos, si sviluppano storie e cinema. Non necessariamente grandi epopee, ma piccole storie fatte di piccole cose. In questo caso, è il microscopio di Ritesh Batra, alla sua riuscita opera prima, che indugia sul burbero impiegato prossimo alla pensione, Mister Fernandes, e sulla casalinga delusa e ignorata dal marito, Ila. Due cellule, forse di organi sensoriali diversi (nella metafora dell'organismo), che però condividono la solitudine, la capacità di guardarsi attorno con uno spirito di osservazione acuto e amaro, il desiderio di raccontare, magari di spazi deserti ed affollati al contempo, o di amori ormai ridotti a puro accudimento. Nel ricordo del passato, l'amore può essere unilaterale.
I due protagonisti vengono in contatto tra di loro, in modo casuale, attraverso un inusitato "canale" di comunicazione: un lunchbox, cioè un contenitore del pranzo, inizialmente destinato al marito di Ila, ma erroneamente recapitato a mister Fernandes. È vero che le deviazioni casuali dalle leggi matematiche non inficiano le leggi stesse, anche perché nei grandi numeri i loro effetti si annullano. Ma siamo anche consapevoli che in queste deviazioni, o scarti, o errori, stanno il racconto, la storia, il cinema: "a volte il treno sbagliato ti porta alla stazione giusta".
Vanno e tornano i bigliettini tra Ila e Mister Fernandes, dentro questo lunchbox verde; narrano di amarezze, rimpianti e delusioni, ma fanno crescere i personaggi fino a far loro prendere coscienza di sé e della propria condizione. Grazie a questo scambio nasce nei due protagonisti il desiderio di costruire una reazione attraverso la relazione, in un contesto urbano che, come spesso accade, più crea affollamento, più favorisce la solitudine. In questo ambiente chi si sa guardare attorno, interpretando correttamente i bisogni degli altri, viene ripagato. Allora un atto semplice, come restituire una palla a una bambina, può indurla a non chiudere più la finestra in faccia all'uomo solo che gliel'ha ridata, mostrandogli (come in un reality) uno scorcio di vita familiare che per lui non è mai esistita o non esiste più. La società è una finestra aperta. Oppure chiusa. Non spegnere un ventilatore a soffitto può significare concedere a un uomo in coma l'unico svago o conforto possibile. Rallentare il movimento rotatorio del dispositivo significa non soltanto far stare male quell'uomo ma anche, attraverso un meccanismo empatico, tutti coloro a cui viene raccontata la storia di quell'uomo. Un ventilatore come una bobina cinematografica.
Costellano l'agile impianto del film personaggi intensi e perspicui, come la zia saggia che abita al piano di sopra, che non vediamo mai, ma è più presente, vera e viva di tanti caratteri che galleggiano già morti nelle paludi dei film mediocri. Oppure uno stagista loquace e positivo che, come si direbbe dalle mie parti, ha messo in atto una "fuitina", per indurre il padre di lei ad accettare il matrimonio. Ed anche questo rende le storie universali: la loro capacità di convogliare, in sé, uguaglianze e differenze di culture diversissime tra loro. E farlo senza indottrinamento.
Anche grazie alla sensibilità dei due protagonisti, Irrfan Khan e Nimrat Kaur, Lunchbox è uno di quei film che ti "proiettano", in altre vite e in mondi distanti che ci appaiono dolorosamente familiari. In questo formicaio umano affollato di solitudini percepite come irrisolvibili, ci sentiamo stranamente a nostro agio, perché immaginiamo che almeno da un punto di vista statistico, dietro tutte le maschere impassibili dei pendolari e tra le pieghe di un meccanismo sociale ad orologeria, la ricerca di una sensibilità affine non è un atto sterile.
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