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Lunchbox

Regia di Ritesh Batra vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Lunchbox

di laulilla
6 stelle

Un gradevole film indiano, che non mantiene, nel corso del suo sviluppo, le promesse dell'inizio.

 

Il cibo preparato con cura da una moglie premurosa è certamente migliore di quello della mensa, ma Saajan (Irrfan Khan) era vedovo da un po’ di tempo, e perciò di questo doveva accontentarsi, aggiungendo quindi alla tristezza per la perdita della cara moglie, anche il grigiore di quel menù a base di cavoli della premiata cucina scelta dall’azienda per il lunch dei suoi dipendenti (detto fra noi: quando mai gli uomini si cucineranno i loro cibi?).

Per uno scherzo del caso, però, un giorno l’addetto al recapito aveva scambiato la borsa termica col pasto di Saajan con un’altra identica borsa che Ila (Nimrat Kaur) aveva predisposto per il proprio fedifrago marito.

Ila era una donna abilissima in cucina e, per di più, era consigliata da un’anziana zia, a conoscenza dei segreti di spezie, erbe e profumi che, mentre insaporiscono il cibo, dovrebbero aiutare la rinascita dell’amore per le mogli nei cuori dei mariti distratti.

 

L’errore casuale era stato segnalato da Ila a Saajan, con un biglietto inserito fra le pietanziere; a questo era seguita una divertita risposta di lui, ciò che aveva avviato un quotidiano scambio epistolare fra l’uomo – forse un po’ meno triste – e la donna, in piena crisi matrimoniale.
Da questa situazione prende l’avvio il film del regista indiano Ritesh Batra, che, ambientando la vicenda a Mumbay, ci trasmette anche l’atmosfera della metropoli indiana: il frastuono delle sue strade; il traffico caotico; i bellissimi e vivacissimi monelli che in mezzo a quel trambusto trovano un angolo tranquillo fra le case per giocare col pallone; la fiumana degli abitanti, variopinti nei loro abiti, che si spostano per lavorare; gli emigrati che ora tornano - dopo lunghi soggiorni all’estero - in cerca di occasioni di lavoro in patria, come nel caso di Shaikh (Nawazuddin Siddiqui), già cuoco nei paesi arabi e che ora, rientrato a Mumbay, vorrebbe sistemarsi nell’ufficio di Saajan, prossimo alla pensione.


Il regista mette in campo, dunque, nella prima parte del film, molti spunti narrativi interessanti e divertenti, sullo sfondo di un grande paese orientale in via di trasformazione in cui agli antichi riti, alle usanze e alla saggezza provenienti da una cultura millenaria, si affiancano nuove abitudini, che possono rendere difficile trovare un accettabile equilibrio fra vecchi e nuovi comportamenti.

 

 

 

 

 

Dopo questo promettente inizio, il film sembra arenarsi: i personaggi si muovono con incertezza, come se il regista non decidesse né come sviluppare la loro storia, né quale registro narrativo adottare, col risultato che la seconda parte del racconto, oscillando fra il mélo e il drammatico, mal si raccorda con i toni ironici e malinconici della prima parte.

Peccato!

 

 

 

Una precisazione linguistica

Qualcuno, anche fra i critici, aveva affermato all'uscita del film che nel mondo occidentale è assente la tradizione del lunchbox.

Che l’affermazione non corrisponda del tutto a verità mi pare facilmente dimostrabile, semplicemente osservando che lunchbox è, traducendo alla lettera, il contenitore (box) del pasto di mezzogiorno (lunch) e che esistono parole della nostra lingua, di antica tradizione, quali gavetta o gamella, che significano esattamente la stessa cosa.
La parola più elegante e più moderna con significato identico è pietanziera, nobilitata anche dall’uso letterario che ne ha fatto Italo Calvino, che “La pietanziera” ha titolato appunto uno dei racconti-capitoli di Marcovaldo.

Il breve racconto, nella bella prosa del grande scrittore, ha anche il pregio di farci sapere che nelle città industriali italiane, tradizionalmente, i lavoratori si portavano da casa le pietanziere col cibo per il mezzogiorno, prima che alcuni bar attrezzassero per la cosiddetta pausa-pranzo i loro locali.
A Torino, gli operai della Fiat venivano chiamati, per questa ragione, "barachin”, ovvero identificati con il termine dialettale che indica la pietanziera, la quale a Milano si chiama, invece, “schisceta” (accetto smentite, ovviamente).
La crisi economica, che sta modificando radicalmente il nostro stile di vita, potrà riportare nuovamente in auge, nelle nostre città schiscete e barachin?

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