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L'intrepido

Regia di Gianni Amelio vedi scheda film

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La recensione su L'intrepido

di Spaggy
6 stelle



Io voglio generalmente bene a Gianni Amelio. Ho sostenuto ogni sua opera all’inverosimile, ho litigato con chi ne denigrava spesso lo stile e ho tentato di non storcere il naso di fronte ad alcune sue scelte non sempre di facile comprensione.

 

La premessa è d’obbligo perché questa volta, di fronte a L’intrepido, mi sento tradito. Il tradimento nasce da molto più di un fattore ma a bruciare maggiormente è il fatto di non vedere rappresentata sullo schermo una storia che rifletta la vera realtà della situazione.

Se Amelio avesse voluto raccontarci in chiave tragicomica la realtà lavorativa attuale e lo scontro generazionale tra padri e figli (dove per figli si intendono tutti coloro che appartengono a una età anagrafica lontana una generazione dai “genitori”), avrebbe dovuto limitare il suo punto di vista, sforzandosi di non dare giudizi affrettati e usciti da un numero qualsiasi di Panorama.

 

La storia di L’intrepido è presto raccontata: Antonio Pane, il protagonista più cinquantenne che quarantenne, lavora tutti i giorni come rimpiazzo. La sua è una soluzione alla Totò che gli permette quotidianamente di guadagnarsi da vivere e di tirare la  baracca di un’esistenza ormai quasi al limite della decenza. Solo, separato dalla moglie e con un figlio che ogni tanto gli fa visita, Antonio si muove chapliniamente da una situazione all’altra, rimettendoci spesso anche di tasca propria, prima di incontrare una ventenne in crisi esistenziale.

 

Tralasciando la banalità del cognome del protagonista (Pane… capite la sottigliezza? Il “pane quotidiano” e via dicendo), L’intrepido vira verso il drammatico dopo tale incontro. Nonostante Antonio si sforzi di avvicinarsi alla ragazza, questa soffre di mal di vivere e di rifiuto del patrimonio di famiglia: in pratica, è una viziata figlia di papà che crede di modificare il proprio karma conducendo la stessa esistenza di chi non tira fino a fine mese. Contemporaneamente, il figlio ventenne di Antonio non riesce a trovare la sua strada per divenire musicista, arrivando a soffrire di attacchi di panico prima di un’esibizione.

 

Con il suicidio della ragazza, L’intrepido tocca il punto massimo di pathos, nel senso letterario del termine, e diventa un excursus patetico che culmina in un finale fin troppo buonista.

Se la storia di per sé perde il mordente dell’originalità della prima parte, a ferire maggiormente è la scelta del regista di farsi portavoce di un’epoca difficile e di un disagio che un film non può risolvere con una netta generalizzazione: mentre la generazione over –anta sopravvive alla modernità ricorrendo alla sempre valida “arte di arrangiarsi”, la generazione under –anta finisce vittima delle proprie debolezze e insicurezze piuttosto che reagire. In uno scambio di dialoghi tra il padre Antonio e il figlio Ivo la sceneggiatura piazza inoltre un’osservazione di non poco conto, che recita pressappoco così “a scuola siam tutti geni mentre fuori non siam capaci di far nulla”. Sarà mica vero? Il sottoscritto, ovviamente, dissente.

 

Lo scontro generazionale e la critica alla società moderna accompagna come una sottile linea guida anche il discorso che Amelio vuole inculcarci sulla comunicazione: in quella che la sociologia contemporanea definisce “società dei simulacri”, Amelio ripesca quasi antropologicamente il valore della comunicazione vis a vis, regalandoci un Antonio Pane attento al bisogno di comunicare con chiunque incontri, anche con un bambino silenzioso che sta accompagnano verso una destinazione a lui sconosciuta. Mentre i giovani, figli della generazione internet e social network non sono in grado di sopportare il peso degli incontri reali (non a caso, il figlio soffre di attacchi di panico prima di esibirsi di fronte al pubblico), chi è cresciuto prima dell’epoca dei mass media si salva. Non importa poi se l’essenza di questa salvezza sia vigliacca, come dimostra la scena in cui Antonio, pur scoprendo verso cosa ha condotto quel bambino, non si muove dalla semplice denuncia con il capo dei malfattori, per cui lavora (ovviamente connotato da accento meridionale).

 

Curiosa l’autocitazione che Amelio si regala in una scena: in uno dei tanti rimpiazzi che precedono il finale, Antonio finisce a lavorare in Albania: scelta che evidenzia l’ennesima attenzione ai tempi e la connotazione fortemente critica alla situazione italiana ma che fa ritornare alla mente quel suo Lamerica del 1994, un tempo e uno stile che oggi appaiono davvero lontanissimi.

Esagerati, come al solito, i fischi in Sala Darsena, alla prima proiezione stampa.

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