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Voyage of Time

Regia di Terrence Malick vedi scheda film

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La recensione su Voyage of Time

di EightAndHalf
9 stelle

All'ottavo film, Malick cade ancora in piedi. Dopo il capolavoro dell'età matura, Knight of Cups, il regista di Ottawa torna con un documentario sull'esistenza e sulla vita, asciugato degli orpelli delle contingenze umane, e aderente, finalmente, a quello che potrebbe essere considerato a tutti gli effetti uno sguardo divino

Il viaggio del Tempo, il viaggio della Vita, il viaggio della Coscienza. La voce di Cate Blanchett comincia a parlare, nel buio dell'ouverture, e a chiedere alla Madre dove si trova, e perché non le risponde. Un dialogo a senso unico, dunque, che va costruendo ed edificando l'esistenza del creato.

 

scena

Voyage of Time (2016): scena

 

Ma il film di Malick è soprattutto un discorso metacinematografico. A comunicare non sono due persone, e neanche due entità; bensì, due sguardi. Quello divino, trascendente, che si muove con lentezza ed armonia negli abissi del tempo, passando dal piccolo al grandissimo, dal vicinissimo al lontanissimo, senza soluzione di continuità, attraversa l'universo, gli oceani di lava, le distese rocciose e infine le prime cascate di acqua. 

L'altro sguardo è più "basso", materiale. E' una videocamera digitale, sovraesposta eccessivamente e dai colori saturatissimi, che lancia occhiate perplesse e confuse a un'umanità che sembra disperata e senza illusioni (le immagini, in questo caso, ricordano le errabonde vicissitudini sulle strade hollywoodiane di Laura Dern in INLAND EMPIRE). 

E' soprattutto lo sguardo alto e divino però, quello che interessa a Malick. Tramite una grammatica esclusivamente filmica, Malick intreccia una narrazione lineare e purissima nella sua semplicità, che guarda alle confusioni e agli scontri fra le particelle dei primi brodi primordiali, alla nascita della Terra da quella che sembra una gigantesca placenta,  al combinarsi dei quattro elementi, alla nascita dei mari e alla lenta formazione della fauna. Ma il piglio non è solo narrativo, non trascura infatti il mezzo, invadente e fondamentale, la vista.

 

scena

Voyage of Time (2016): scena

 

Potremmo definire l'Occhio come divinità legante le ambiziose parti di Voyage of Time. L'Occhio di Cate Blanchett, l'Occhio della videocamera digitale, e l'Occhio divino. Tre sguardi che dialogano, il primo tramite la voce dell'attrice, gli altri due alternandosi con barriere ben definite e nitide. La voce di quella che potrebbe essere l'Umanità, o l'Essere Umano in genere (quella della Blanchett), si rivolge a una Madre che assume di volta in volta due nomi diversi: Vita e Natura. Mentre un silenzio assordante e angoscioso come il silenzio dello Spazio risponde ai quesiti di un'umanità apparentemente abbandonata, Malick passa in rassegna le Forme, quelle che si sono generate sulla Terra e che si sono rese sempre più complesse fino a giungere alla figura umana. Prima le particelle, poi gli animali, infine gli uomini: le interazioni fra simili sembrano essere dettate esclusivamente da amore e odio (più odio che amore). L'unica eccezione è quando essi si guardano fra di loro, come a cercare spiegazioni della loro presenza nell'altro. In altri casi, gli animali solitari si dirigono verso la luce; in altri ancora fissano l'Occhio divino con uno sguardo perso e confuso. Lo stesso fanno gli esseri umani, una volta giunti sulla Terra. E' in questo momento che l'Occhio divino scende sulla Terra, con un fenomenale contre-plongée totale: sta per verificarsi un cortocircuito tra di lui e il basso sguardo umano?

 

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Voyage of Time (2016): scena

 

Nonostante la maestosa complessità del tema, Malick sembra essere tornato a una spontaneità e a una soavità che non gli si potevano imputare fin dai tempi di The New World. Ciò non è incoerente con il percorso del regista di The Tree of Life: di fatto, la trilogia iniziata con la Palma d'Oro a Cannes 2011, e conclusa con Knight of Cups, indagava il creato e l'esistenza dal punto di vista di esseri umani completamente immersi nella loro personale e universale lotta tra la corporeità e la spiritualità. Qui Malick trascende, e sembra peccare di tracotanza simulando lo sguardo impassibile della divinità. Ma l'ultima parte del film, che indaga il futuro del cosmo, è ben chiara su dove si trova la Divinità, nella nostra vita, che sia sotto forma di qualsiasi religione, che sia sotto forma di amore assoluto e incondizionato, ridimensionando la rischiosa ma affascinante hybris in cui il regista sembrava essere caduto. Insomma, Malick risponde a quale sia il ponte fra i tre Occhi, lo fa senza spiegoni ma con l'eleganza delle immagini e i periodi istantanei e brevi, paratattici, di Cate Blanchett. 

 

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Voyage of Time (2016): scena

 

Riflettendo sull'inesorabilità del Tempo (che "divora tutto", o distrugge, per usare le parole di Gaspar Noé), Malick finisce per mostrarcelo, donandoci una percezione totalmente alienata dal reale durante la visione: in parole povere, ipnotizzandoci del tutto. Un film, dunque, quadridimensionale, che riscopre l'anima dell'uomo, ma soprattutto riscopre lo sguardo come strumento fondamentale (cinematografico) di indagine esistenziale. Tant'è che la Madre che Cate Blanchett chiama continuamente non è onnisciente, ma onnivedente

Un film struggente ed emozionante, la summa di un percorso registico che dimostra ai detrattori malickiani che non c'è mai un complicatissimo mondo di segni dietro i film di Malick, e che se c'è, è comunque affiancabile a una dimensione emozionale che è tutta sulla superficie, sulla pellicola, sull'occhio di chi guarda. 

Voyage of Time è pura immanenza.

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