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La ricotta

Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film

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La recensione su La ricotta

di spopola
9 stelle

La vitalità barocca di questa “passione proletaria” indubbiamente “minimale” ma ugualmente tragica, ambientata in un sottobosco cinematografico simile a una fiera di paese e attraversata dall’inconsapevole dramma di un “nullatenente” che ha fame di pane, è sorretto dalla qualità superba della messa in scena e delle sue preziosità figurative.

Guai a chi non sa che è borghese

questa fede Cristiana, nel segno

di ogni privilegio, di ogni resa,

di ogni servitù; che il peccato

altro non è che reato di lesa

certezza quotidiana, odiato

per paura e aridità; che la Chiesa

è lo spietato cuore dello Stato.

(…)

Tutto mi dà dolore:

questi occhi profanatori,

questi turpi alunni di un Gesù corrotto

nei salotti vaticani, negli oratori,

nelle anticamere dei ministri, nei pulpiti:

fonti di un popolo di servitori.

Com’è giunto lontano dai tumulti

puramente interiori del suo cuore,

e dal paesaggio di primule e di virgulti

del materno Friuli, l’Usignolo

dolceardente della Chiesa Cattolica!

Il suo sacrilego, ma religioso amore

non è più che un ricordo, un’ars retorica:

ma è lui che è morto, non io, d’ira,

d’amore delusi, di ansia spasmodica

per una tradizione che è uccisa

ogni giorno da chi se ne vuol difendere…

                        (Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo)

 

E’ proprio con La ricotta[1], in assoluto uno dei suoi più felici, interessanti e riusciti risultati non solo estetici, ma anche di contenuti (e per qualcuno addirittura il suo capolavoro) che Pasolini definisce in maniera compiuta la traccia (inequivocabile e “certa”) di quello che è stato (e sarà) il suo rapporto con la religione (profondo, sofferto e dibattuto), quell’intimo, arcaico intreccio fra marxismo e cattolicesimo che si ritrova in molte delle sue opere sia letterarie che cinematografiche.

E’ infatti proprio in questo breve episodio di rara potenza espositiva (che ha la pienezza fulminante  e sintetica di un racconto e la forza trascinante e affabulatrice della poesia) che questo particolare connubio di “sacro” e di “profano” trova la sua completezza narrativa e diventa l’ideale apripista per i lungometraggi altrettanto eloquenti che poi lo seguiranno da vicino (parlo del rivoluzionario approccio scelto per la sua lettura del Vangelo secondo Matteo e della costruzione metaforica di Uccellacci e uccellini con le sue divagazioni evangelico-francescane che inducono a una seria, meditata, pessimistica riflessione sulla crisi del marxismo, sul ruolo dell’intellettuale e sul destino futuro del proletariato) che approderanno poi di diritto alla parabola (conclusiva?) di Teorema[2] (“teorema” dimostrativo sull’incapacità dell’uomo - o per meglio dire del borghese moderno – di percepire, ascoltare, assorbire e vivere il sacro[3])essendo poi venuto a mancare il successivo tassello mai realizzato che doveva riguardare la complessa personalità di Paolo di Tarso (San Paolo), figura importantissima (molto discussa e altrettanto problematica)  prima “responsabile” della elaborazione di quella teologia cristiana su cui si basa  ancora oggi la religione cattolica con poche variazioni.

La cristallina e critica evidenza di questo suo piccolo e compiuto “capolavoro” sottolinea dunque magistralmente il senso di una  ricerca (anche interiore) portata avanti con coerenza più che “dentro” la fede intesa come dogma, provando ad esplorarne invece i contesti paralleli, spesso intrisi di (apparente) laicità, in cui si parla di un’umanità non ancora del tutto soffocata dal piatto razionalismo borghese che poi purtroppo avrà la meglio adeguandosi alle forme perverse del potere (vedi l’angosciante, brutale pessimismo di quella che è stata la sua fatica conclusiva che a mio avviso chiude ogni spiraglio di speranza nonostante il finale “sospeso”, e parlo naturalmente di Salò o le 120 giornate di Sodoma, in più di un tratto davvero insostenibile alla visione per la crudezza estrema delle immagini, e dove appunto i due ragazzi che ballano incoscienti in quell’ecatombe generale, non rappresentano una possibile apertura sul futuro, ma come giustamente osservano Di Giammatteo e Cristina Bragaglia, testimoniano invece la follia e la smemoratezza che seguono all’orrore).

Un imbarbarimento generale e progressivo  che nel suo cinema traspare (e si manifesta) al suo stadio più semplice e preoccupante – anche sotto il profilo delle “sofferenze” imposte o procurate - fin dalla sua prima fatica cinematografica (Accattone) ma che già attraversava tutta la sua opera letteraria..

Volendo essere più esplicito, raffrontando gli scritti con il suo cinema, mi sembra di poter affermare insomma che la religione in cui Pasolini ha (in qualche modo) creduto (direi più propriamente “è stato affascinato e soggiogato”), è il cristianesimo primitivo, per molti versi prossimo al  paganesimo (il suo atavico, superstizioso, intimo cattolicesimo pagano, come soleva definirlo), ancora autentico e sincero, sublimato certamente dalla fede, ma sorretto anche da una forte carica rivoluzionaria e contestatrice di rinnovamento che è poi andata smarrita. Mi suggeriscono in parte questa considerazione, le sue successive riletture “critiche” dei riti arcaici di quel mondo antico e pre-cristiano fatte con Medea (un’opera sospesa a metà fra barbarie e civiltà che ci racconta la morte di quell’ancestrale mondo agricolo gonfio di magia e superstizione che viene soppiantato dalla nascita di un mondo nuovo, urbano  libero dagli stretti vincoli imposti dalla religione almeno nella sua fase formativa, e sostanzialmente laico) e Edipo re (dove il sottoproletariato delle metropoli moderne trova una nuova identità in quello più esasperato e primordiale dei miti antichi tramandati dalla tragedia greca), ma soprattutto i versi tratti dalla raccolta “La poesia in forma di rosa” [1964] che sono anche le parole che proprio ne La ricotta  fa pronunciare - anzi, leggere da un libro che singolarmente porta in copertina una foto di Mamma Roma - a Orson Welles che interpreta mirabilmente la parte del “regista” (sua evidente proiezione mediata), vedi la memorabile scena dell’intervista (https://www.youtube.com/watch?v=_1-YsnH3KSY ) che dice praticamente tutto del film e del suo autore:

Io sono una forza del passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle Chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati sugli Appennini o le Prealpi

dove sono vissuti i fratelli.

Giro per la Tuscolana come un pazzo,

per l'Appia come un cane senza padrone.

O guardo i crepuscoli, le mattine

su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,

come i primi atti della Dopostoria,

cui io assisto, per privilegio d'anagrafe,

dall'orlo estremo di qualche età

sepolta. Mostruoso è chi è nato

dalle viscere di una donna morta.

E io, feto adulto, mi aggiro

più moderno di ogni moderno

a cercare fratelli che non sono più.

 

Potremmo definirla insomma “la religione vera”, non quella che viviamo oggi (nonostante Papa Francesco), spontanea e ricca di tradizioni, nata e radicata in un mondo ancora arcaico, o per meglio dire preumano, prenaturale come lo definì a suo tempo Franco Prono[4], ma questo se vogliamo assegnargli per forza un’etichetta, necessaria soltanto per “rassicurare” i molti che (ingiustamente) in quegli anni ornai lontani, gli rimproveravano la sua eterodossia religiosa ritenuta abbastanza “stravagante”, quasi blasfema (e il conseguente conflitto che ne derivava proprio in rapporto alla sua dichiarata laicità), poichè su questo punto Pasolini è stato invece sempre talmente chiaro (“cattolico, ateo, sono parole che non significano proprio niente. E’ la realtà che è divina”) da non consentire alcun fraintendimento, se non in malafede, da parte di chi, nonostante tutto, continuava a non voler capire.

In Pasolini dunque (qui come in Accattone) la religione cristiana con il suo messaggio d’amore e di “redenzione” viene principalmente utilizzata per il suo significato politico-sociale e umanitario (spesso contraddetto dalle gerarchie ecclesiastiche dei massimi livelli) strettamente legato al sottoproletariato e ai popoli del Terzo Mondo.

Ma se nel romanzo Una vita violenta la redenzione è ancora di ordine psicologico e politico, già in Accattone è diventata un qualcosa di molto più complesso e “conseguente”, tale da trasformarsi in  un processo ascendente (ed evolutivo) che,  partendo dall’Inferno della vita delle borgate (culminante nella scena della zuffa con il cognato) transita dal Purgatorio in cui interviene la Grazia Santificante impersonata da Stella (l’amore pulito e in qualche modo “salvifico”), per arrivare al Calvario (il lavoro avvilente, la zuffa con i vecchi amici) e approdare alfine (dopo il “martirio”,  esattamente come accade a Stracci ne La ricotta), al Paradiso (paradossalmente  simboleggiato dalla morte, ma che in Pasolini è invece spesso il momento focale della vita e della verità, dal quale tutta l’esistenza  prende significato).

Certamente la morte, dunque, ma da intendersi come catarsi, rivoluzione personale, liberazione esistenziale, superamento del male, della colpa, come se il Poeta individuasse proprio in queste figure di un sottoproletariato che non ha scampo, la sua particolare idea di “redenzione” riabilitante, e delegasse ala loro “passione laica” anche l’insita possibilità di una sua ipotetica e personale “riconciliazione”.

 

Nemmeno il suo pensiero politico però è ortodossamente omologato (tanto che è stato sempre molto difficile, soprattutto nella parte iniziale del suo percorso artistico, individuare (e catalogare) con esattezza entomologica, il marxismo puro del suo pensiero rispetto non solo a ciò che trova invece origine nella religione, ma anche a quello che ha radici più strettamente autobiografiche, e che nel prosieguo della sua carriera lo porterà ad attingere sempre di più linfa vitale dalla psicanalisi.

Il suo quindi lo potremo considerare davvero un movimento di pensiero “aperto a tutti i sincretismi, contaminazioni e regressi, pur restando fermo nei suoi punti saldi, di diagnosi e di prospettiva” (come lui stesso lo ha definito), focalizzato soprattutto (almeno in questa fase del suo percorso di vita e di lavoro) sul piano del populismo e dell’umanitarismo, ma sempre in aperta dialettica con l’istanza religiosa.

In questa prospettiva, non è dunque un caso che Stracci (il  nostro “eroe”, se così lo vogliamo definire) sia “brutto come una bestia”, ma “buono come un pezzo di pane”, e soprattutto oppresso da una insaziabile fame atavica (che è poi quella arretrata del sottoproletariato!), aggravata dalla presenza di una moglie e di sette figli da accudire.

Se vogliamo essere ancora più precisi allora, si può dire che è stata proprio quella “fame” ad aver ridotto Stracci al rango di una bestia (“la bestia non vede e non sente: magna”[5]) alla costante ricerca primaria del cibo, poiché è solo dopo aver soddisfatto questo impellente bisogno naturale ed essersi (momentaneamente) saziato (anche a dismisura) che “la vita gli sorride”. E Stracci, il “ladrone buono” della finzione cinematografica, non nutre altro interesse se non quello, e pure sulla croce dove muore per un indigestione di ricotta, resta soltanto “un pitone, gonfio e sfigurato” che non è riuscito a digerire quel troppo che ha appena ingurgitato. Se non si fa più illusioni, è perché ormai accetta la vita così com’è, passivamente, consapevole del fatto che per lui niente potrà cambiare e diventare diverso per davvero (cosa che appunto sanno – o percepiscono – le bestie), ma al tempo stesso cosciente che anche coloro che pensano, contestano, ed  hanno l’aria di aver capito tutto (come quel Cristo che condivide con lui il supplizio della croce) in realtà sono nella sua stessa situazione esistenziale, poiché – esattamente come lui - nemmeno loro riescono poi a cavare un ragno dal suo buco.

Quando infatti “l’attore” che interpreta Cristo lo richiama alle sue responsabilità di uomo (“Io nun te capisco: mori sempre de fame, ma sei dalla parte dei signori che te fanno morì de fame”) Stracci conferma tutta la sua sfiducia e la sua desolante rassegnazione rispetto a un mondo e a una società che ormai gli sono totalmente estranei (e tali gli rimangono): “C’è chi nasce co’ na vocazione e chi nasce co’n’antra. Io sarò nato co’ la vocazione de morì de fame!”

Tutti nel film sembrano dunque vivere dentro a una realtà alienante ed alienata a loro altrettanto estranea (vedi la totale mancanza di interesse e di “fede” che esplicitano persino nel loro svogliato modo di “lavorare”gli addetti alla produzione e gli stessi attori scritturati), tanto che alla fine - e potrebbe sembrare persino un paradosso - è il solo Stracci a riscattarsi (sia pure attraverso la sua dipartita), il che conferma e rende ancor più lampante ciò che Pasolini aveva già comunicato con le sue precedenti fatiche (Accattone e Mamma Roma)e cioè che la morte (tanto più se è“tragica”) è l’unica cosa che dà all’uomo una vera grandezza).

Il  testone penzolante e inanimato di Stracci, diventa così un vero e proprio atto d’accusa virulento verso quei “signori” (i “padroni” del vapore) che storcono la bocca e restano esitanti di fronte a quella visione “disturbante”, ma solo perchè sono (loro malgrado) costretti ad accorgersi che quell’uomo inerte sulla croce esisteva anche prima, anche se preferivano non considerarlo: (Non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo è la battuta pronunciata dal regista della finzione cinematografica – o per meglio dire, quella che gli fu imposta dalla censura perché  quella originale prevista, davvero molto più incisiva, era invece “povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo per fare la rivoluzione!” ), ed è particolarmente significativo il fatto che il produttore e la sua corte siano visti dallo spettatore con la stessa angolazione visiva che corrisponde a quella dello stesso Stracci (cioè dalla croce). Si potrebbe dire allora - e cito ancora Prono, che Pasolini offre anche allo spettatore un punto di vista che sovrasta l’alienazione terrena in nome di una (im)possibile liberazione.

 

Se dunque Pasolini affida a Stracci la giusta definizione del suo pensiero, è  nella figura di un regista che detesta  la piccola borghesia, che trova invece la sua identificazione “certa”: una presenza “iconica” di assoluta rilevanza qui resa eccezionale dalla istrionica recitazione di un Orson Welles giustamente strabordante, autoironico, disincantato e “perfidamente” sornione  al massimo della sua creatività di Artista (doppiato con perfetta aderenza anche vocale dallo scrittore Giorgio Bassani)  al quale mette in bocca addirittura frasi da lui stesso dette e molti colpi in canna capaci di centrare il bersaglio, sufficienti a chiarire (contraddittorietà compresa) la sua esatta posizione di intellettuale borghese di sinistra.

Anche sul versante tecnico, le specifiche intenzionalità espresse dalle riprese, forniscono un elemento importante per definire la struttura (persino “morale) della storia (addirittura al di là degli eventi narrati) e dei suoi personaggi.

Già Accattone veniva fotografato quasi sempre frontalmente, su sfondi generalmente bianchi - preziosi per dare un senso di sacralità alla sua presenza - utilizzando peraltro obiettivi da 50 e 75 che tendono ad arrotondare le forme e a dare alle figure un aspetto statuario (vedi quella sequenza d’apertura che ce lo mostra ritto e ingioiellato in una posa che definirei “scultorea”, sul Ponte degli Angeli[6] con tutta la fila degli Angeli alle sue spalle a fargli da cornice, di assoluta rilevanza insieme ad alcune frasi pronunciate nel corso dell’opera in tono quasi biblico da un suo amico, e ai ripetuti “segni della  croce” che costellano la pellicola). Gli stessi accorgimenti “visivi”vengono ripresi pure qui, ma ricorrendo questa volta a un più frequente uso dello zoom e a obiettivi da 100 e 250 che tendono invece a ridurre il paesaggio a semplice sfondo e a schiacciare le immagini  con effetti “pittorici” che contribuiscono a renderle simili a veri e propri quadri viventi, procedura che verrà ulteriormente  perfezionata nel Vangelo di San Matteo accentuando ancor di più i movimenti della cinepresa.

 

La vitalità barocca di questa “passione proletaria” indubbiamente “minimale” ma ugualmente tragica, ambientata in un sottobosco cinematografico simile a una fiera di paese e attraversata dall’inconsapevole dramma di un “nullatenente” che ha fame di pane, si potrebbe dunque liquidare come la sintesi perfetta  delle ossessioni del regista se il tutto non fosse invece sorretto dalla qualità superba della messa in scena e delle sue preziosità figurative che trovano linfa vitale appunto proprio nell’arte della pittura.

Se Mamma Roma (che si apre addirittura con una sequenza che ricorda la tavolata dell’Ultima Cena) presentava già molti riferimenti (il finale soprattutto) a una pittura antica persino precedente al Caravaggio e al Mantenga e agli altri nomi illustri richiamati dai recensori a supporto dei propri convincimenti “figurativi” (tesi peraltro molto dibattuta dallo stesso Pasolini)[7] ne La ricotta la “violenta”  tavolozza (magnificamente supportata dal colore – un’orgia di rossi, di blu, di verdi, di marroni -  che rende ancor più chiare le evidenze) utilizzata dal regista per esaltare l’importanza del tableau vivant inserito nel film e farlo diventare così non solo il punto culminante del suo percorso narrativo, ma anche e soprattutto il commento (esplicativo) sul  suo più recondito e profondo significato.

La dicotomia esistente fra la monocromia di un fulgido e variegato bianco e nero che permea praticamente (quasi) tutto il resto dell’opera e  questa strabiliante immagine dove appunto “il colore” (o meglio “quei colori”) è davvero imprescindibile nei suoi rimandi (anche compositivi) alle Deposizioni (volutamente citate anche nei cromatismi) del Rosso Fiorentino e del Pontormo (senza dimenticare ancora e di nuovo anche il Caravaggio), fondamentale per trasformarla in una rappresentazione fortemente “scenografica” del Cristo morto che,  pur se collocata non esattamente alla fine del film, ne costituisce comunque  indubbiamente  il riassunto morale che rimanda e si contrappone alla “passione” di Stracci.

Non una semplice “furbata” abbellente dunque, ma una irrinunciabile, fondamentale “necessità  stilistica” che pone per la prima volta nel cinema di Pasolini il “problema” del colore e ne esalta la sua importanza narrativa. Nel film infatti sono disseminati anche altri piccoli inserti colorati tutt’altro che casuali (mi riferisco in particolare a un’altra inquadratura pittorica che riprende in “piano ravvicinato” la tavola imbandita di cibarie: frutta, uova, prosciutto e la ricotta che dà il titolo al cortometraggio). Una “natura morta” insomma che pur non riferendosi ad alcun dipinto in particolare, è comunque a mio avviso a tutti gli effetti un’altra citazione iconografica in “dialettica contrapposizione anche contenutistica” dovuta all’evidente contrasto che si ravvisa fra il suo apparato espressivo sostanzialmente “naturalistico” e l’elegiaca astrazione del “dipinto” che documenta invece la morte di Gesù attraverso quella di Stracci.

Singolare anche il supporto (persino straniante se vogliamo) dello score musicale[8] dove alle composizioni originali scritte da Carlo Rustichelli si intrecciano quelle di Alessandro Scarlatti (la Sinfonia dalla cantata profana Sulle sponde del Tebro), le note del Sempre libera dalla Traviata di Giuseppe Verdi proposte in una un po’ triviale riduzione per fanfara, il Largo del Concerto in re maggiore per oboe, tromba, fagotto, archi e basso continuo di Franco Biscogli, alcune sequenze da La messa dei defunti (Dies Irae e Dies Illa) di Tommaso da Celanoe addirittura Eclisse Twist di Fusco.

Un ultimo sguardo infine alla variegata composizione dell’efficace cast che mischia nomi importanti ad altri sconosciuti e presi dalla strada, non disdegnando nemmeno la presenza di singolari personalità mutuate dal mondo della cultura: Orson Welles (il regista) che parla con la voce di Giorgio Bassani, Mario Cipriani (Stracci), Laura Betti (la “diva”), Edmonda Aldini (un'altra “diva”), Vittorio La Paglia (il giornali­sta), Maria Bernardini  (la strip-teaseuse), Rossana Di Rocco (la fi­glia di Stracci), l’Avvocato Giuseppe Berlingeri (il produttore) e ancora Ettore Garofalo, Lamberto Maggiora­ni, Alan Midgette, Tomas Milian, Giovanni Orgitano, Franca Pasut (le comparse, che comprendono anche il nome di chi interpreta Gesù) oltre a An­drea Barbato, Giuliana Calandra, Adele Cambria, Romano Costa,  Elsa de' Giorgi, Carlotta Del Pezzo,  Gaio Fratini,  John Francis La­ne, Robertino Ortensi, Letizia Paolozzi ed Enzo Siciliano (gli invitati).

 

[1] In origine, uno dei quattro capitoli (ed anche il più bello e riuscito) che compongono il film a episodi Ro.Go.Pa.G., titolo mutuato dalle iniziali dei cognomi dei quattro registi chiamati a realizzarlo per conto della Arco Film di Alfredo Bini in associazione con la Cineriz: oltre a Pasolini, Rossellini (episodio Illibatezza); Gregoretti (episodio Il pollo ruspante) e Godard (Il mondo nuovo). Proprio a causa del tema sviluppato dallo straordinario segmento pasoliniano, il film fu considerato  scandaloso (e conseguentemente sequestrato) con l’incriminazione di “vilipendio alla religione di Stato” (sic!) che costò nell’immediato una condanna al regista in primo grado a ben 4 mesi di reclusione (ma per fortuna  poi annullata l’anno successivo nel processo d’appello che lo assolse, cosa che consentì la riprogrammazione dell’opera nelle sale pur con alcuni aggiustamenti, la modica di alcune battute ritenute ancora inaccettabili, e il nuovo titolo di Laviamoci il cervello – Ro.Go.Pa.G.). Gli interventi censori che rimasero operanti, riguardarono l’eliminazione delle tre ripetizioni de “la corona!”, dello spogliarello dell’attrice che interpreta la Maddalena e della risata dell’attore che interpreta Cristo, l’accorciamento di alcune sequenze ritenute imbarazzanti (ad esempio quella dell’orgasmo di Stracci  legato alla croce e quella  del momento di goliardica ilarità che interrompeva la silenziosa e intensa costruzione del quadro vivente della deposizione). Fu imposta anche la sostituzione della frase “via i crocifissi!” (urlata in sequenza dai personaggi del set e della strada, e financo da un cane) con la più innocua  “fare altra scena”; l’espressione “cornuti” con “che peccato!  e (purtroppo) oltre alla didascalia iniziale, pure la frase conclusiva pronunciata da Orson Welles, che in originale era la seguente: “Povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” con “Povero Stracci!Non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”.

 

[2] Qui  Pasolini non usa l’arma della politica. Introduce invece all’interno di un discorso ancor più metaforico e quasi metafisico,  “il tema ‘inaudito’ del sacro” (Di Giammatteo/Bragaglia) costruendo un parallelo diretto fra sessualità e sacralità, e rivelando così in forma traslata la cruda aridità di quel“ razionalismo sul quale la borghesia ha fondato le sue fortune”. Lo fa utilizzando la singolare figura dell’Ospite (affascinante incarnazione del Divino - forse addirittura lo stesso Dio) sceso sulla terra per mettere in crisi le certezze di un bizzarro campionario umano contaminando tutto con la sua presenza e che poi alla sua uscita di scena, lascerà quasi esclusivamente macerie. 

   

[3] La censura arrivò implacabile anche in questo caso (regista e produttori denunciati per “oscenità”, ma poi assolti) nonostante che a Venezia al film fosse stato assegnato il premio OCIC (Office Catholique International du Cinema), premio che fu comunque fortemente osteggiato e deplorato dalle gerarchie ecclesiastiche nostrane, scandalizzate per l’accostamento – ritenuto blasfemo - di sacro e sesso,

dentro a un discorso complesso e variegato in cui oltre a quelli di Marx e Freud si possono leggere i “riflessi” anche di Marcuse e Jung. 

                                   

[4] La definizione è stata  presa da una analisi fatta da Franco Prono, frutto di un’accurata ricerca critica portata avanti dal  Gruppo di Studio di cui faceva parte, su “La presenza di Pier Paolo Pasolini nel cinema italiano contemporaneo” presentata all’esame di Storia del Cinema presso la Facoltà di Magistero dell’Università di Torino nel 1971. 

 

[5] Versione romanesca della parola “mangia”.

 

[6] Il Ponte Sant’Angelo (noto anche come Ponte degli Angeli) originariamente fatto costruire nel 134 D.C. dall’imperatore Adriano,che nei rioni Ponte e Borgo a Roma, collega Piazza di Ponte Sant’Angelo al Lungotevere Vaticano.

 

[7] Pasolini scriverà proprio in un articolo apparso su “Vie nuove” del 4 ottobre del 1962 “ rivolgendosi a Longhi per esortarlo a intervenire, e così mettere fine alle incertezze e alle illazioni interpretative riguardanti soprattutto  la toccante scena della morte del protagonista sul letto di contenzione: “Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che i bianchi e i neri così essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore (canottiera bianca e faccia scura) è disteso sul letto di contenzione, richiamano pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantenga? O che se mai, si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio?”

 

[8] Pasolini ricorre spesso nelle sue pellicole (anche contaminandola ) alla musica classica. L’elenco potrebbe essere lunghissimo. Mi limito quindi a ricordare almeno l’importanza che riveste l’utilizzo dei brani della Passione secondo Matteo di Bach in  Accattone, il Concerto in do maggiore di Vivaldi (Mamma Roma), la Missa luba e ancora il Bach della Passione secondo Matteo oltre allo spiritual Sometimes I Feel Like a Motherless Child nel Il Vangelo secondo Matteo, e il Requiem di Mozart  contrapposto alle musiche stranianti di Morricone in Teorema.

 

 

Tu sei dunque venuto in questa casa per distruggere.

Che cosa hai distruttiìo in me?

Hai distrutto, semplicemente,

- con tutta la mia vita passata –

l’idea che io ho sempre avuto di me stesso.

Se dunque da molto tempo

io avevo assunto la forma che dovevo assumere

e la mia figura era, in qualche modo, perfetta,

ora, che cosa mi rimane?

Non vedo niente che possa reintegrarmi

nella mia identità. Ti guardo: non mi ascolti

con imparzialità – perché tu non ti dividi in parti –

ma con dedizione – perché tu ti dai tutto a ognuno.

Come può, tuttavia, la tua presenza consolatrice

essere così pura, tanto da manifestare,

quasi, una chiara volontà di distacco?

A che serve consolarmi, se tu, volendolo,

potresti rinviare, anche magari per sempre,

la tua partenza? Invece tu partirai:

su questo non c’è il minimo dubbio.

La tua pietà è dunque subordinata

a qualche altro misterioso disegno.

Vuoi forse dirmi (non parlando, ma semplicemente

attraverso il fatto che sei un ragazzo)

che tu potresti essere sostituito, ora,

da mio figlio o da mia figlia?

Proposta completamente folle (preordinata,

forse, da qualche mia oscura volontà)

eppure giusta, se, benché realizzata

(il membro nudo di mio figlio, la vulva nuda di mia figlia),

non fosse che un simbolo: e se, attraverso essa,

tu mi esortassi alla perdizione più totale,

a mettere la vita fuori di se stessa,

e mantenerla una volta per sempre

fuori dall’ordine e dal domani,

facendo di tutto questo la sola reale normalità.

Forse perché chi ti ha amato deve

(come del resto ogni uomo – che non lo sa)

poter riconoscere a tutti i costi la vita,

in ogni momento? Riconoscerla, e non soltanto

conoscerla, o soltanto viverla?

Sono – dici generosamente, nel mio banale linguaggio borghese –

le eccezionalità più impensabili,

più intollerabili, più lontane dalla possibilità

di essere concepite e addirittura nominate,

che si presentano come i mezzi più efficaci

per riconoscere la vita?

Eccezionalità che, tuttavia, non possono

essere che dei simboli

- se nella realtà, come ogni cosa reale,

sono fatte di nulla e destinate al nulla?

 ( Pier Paolo Pasolini: La distruzione dell’idea di sé da  “Teorema”, Garzanti editore, 1968)                                      

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