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Fedele alla linea

Regia di Germano Maccioni vedi scheda film

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La recensione su Fedele alla linea

di FilmTv Rivista
8 stelle

Ci sono documentari che, semplicemente, stanno ad ascoltare. Questo è, soprattutto, Fedele alla linea. Giovanni Lindo Ferretti, distribuito dalla Cineteca di Bologna. Perché i brandelli di filmati inediti, i brani di altri film a lui dedicati (Tempi moderni di Luca Gasparini, Sul 45° parallelo di Davide Ferrario), i frammenti di opere di Pudovkin (uno che, in altri tempi, conosceva bene la terra e il comunismo, la poesia e il realismo, le convenzioni e le rivoluzioni del linguaggio) sono al servizio dello storytelling di Giovanni Lindo Ferretti, gli fanno solo da sponda. E anche le immagini del paesaggio dell’Appennino emiliano si limitano a illustrare la sua storia, incapaci di vibrare di vita propria, costrette in una retorica visiva elementare, classica, automatica. Poco importa che il cinema, come capita frequentemente di fronte a certi straordinari personaggi, sia un semplice prestanome, un’etichetta sbagliata su quello che è, semplicemente, qualcos’altro. Quel che importa è la storia di Giovanni, quel che confida e confessa alla macchina da presa di Maccioni, chiamato in principio a realizzare un documentario sullo spettacolo equestre, barbarico e terragno, Saga. Il canto dei canti, e tornato con un ritratto toccante, una storia potente. L’infanzia contadina e cattolica di Giovanni, il passaggio all’urbe, gli studi elementari (con un’esperienza tragicomica e traumatica allo Zecchino d’oro) e il rosso cambiamento giovanile, il rapporto con Lotta Continua, l’incontro a Berlino con Massimo Zamboni, che con lui fonda i Cccp e i Csi e sconcerta la musica italiana. E poi la malattia, esperienza centrale della sua esistenza, il viaggio in Mongolia («una guarigione»), l’ascetico e discusso (dai media, dai fan) ritorno alla propria terra e alle proprie radici, il conflitto e la commuovente riappacificazione con la madre. I cavalli, la sua passione. E la sua musica, le sue parole, il salmodiare scarnificato e bruciante che ha sempre fuso verseggiare punk e laica preghiera folclorica, gli slogan brevi, geniali e ficcanti che paradossalmente non cementano certezze e descrivono lucidamente un’era, in sottofondo, ad accompagnare il racconto di un uomo che, nonostante affinità e divergenze, non s’è mai fatto pensare dalle ideologie, dalle contingenze, dal mondo. Fedele alla propria, di linea. Che è, per lo spettatore, come quel «non fare di me un idolo, mi brucerò» cantato in chiusura, non un esempio, ma un invito al critico e libero pensiero.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 20 del 2013

Autore: Giulio Sangiorgio

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