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Fedele alla linea

Regia di Germano Maccioni vedi scheda film

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La recensione su Fedele alla linea

di OGM
8 stelle

La linea è la disciplina della libertà. Quella che non consente di sgarrare, di allontanarsi da se stessi, di tradire il proprio io di ieri. Giovanni Lindo Ferretti è nato pastore, e tale è tornato ad essere, per sempre. Forse, in realtà, non ha mai cessato di esserlo. È rimasto un nomade, privo di radici che non siano quelle affondate nella terra priva di nome, extraterritoriale rispetto a tutti i domini ideologici. Eppure Giovanni è cresciuto cattolico. E poi è diventato comunista. Ha attraversato la storia della sua gente e del suo tempo innamorandosi di tutto ciò che poteva rappresentare l’altro da sé, il senso di appartenenza, il sogno, il mistero. E se ne è staccato solo per viverlo in maniera più silenziosa, prudente, dubbiosa e quindi sublime, al riparo dagli artifici compromissori delle interpretazioni di gruppo. Di Giovanni, che oggi ha sessant’anni, questo documentario racconta la giovinezza dedicata al rock chiassoso e ribelle del complesso CCCP, e la maturità segnata dal progetto di ritrovare il suono sommesso della verità: questo è il suo presente, narrato da lui in prima persona, in una lunga intervista che è una rievocazione del passato alla luce delle tiepide certezze raccolte strada facendo. Giovanni sa che imparare significa guardarsi indietro con la meraviglia della prima volta. È accorgersi che solo la fine delle cose le può spiegare per intero, e mostrarle come le fasi di un unico ciclo vitale, nel quale il significato è sempre dato, ma non è mai compiuto. Esistere è un eterno passaggio, verso un futuro che abbiamo dietro le spalle. Giovanni, sul palcoscenico, chiudeva gli occhi: sospendeva il proprio io per immedesimarsi in quel tramite che si lascia attraversare dal flusso dei ricordi, dei pensieri, degli interrogativi che puntano verso luoghi sconosciuti, ma tali solo perché sepolti nella memoria. Lui, i suoi amici ed i suoi cavalli sono oggi i portavoce di un’umanità arcaica, selvaggia, sanguigna, che propone la primitività campestre come la nostra origine più autentica, la cui esistenza è impossibile da rinnegare, e la cui consapevolezza è indispensabile per poter andare avanti. Il teatro equestre della Corte Transumante di Nasseta testimonia come la ricerca del nuovo sia inutile, perché ciò che serve a capire il mondo è già successo. Giovanni è un poeta, che vede la vita come un perenne crepuscolo, avvolto nel tenue bagliore della nascita e della morte: i due estremi che realizzano la completezza dell’essere e che lo mantengono saldamente al suo posto, preservandolo dalla tentazione di fuggire incontro ai futili miraggi della civiltà. Nel film di Germano Maccioni, le immagini di repertorio hanno la patina preziosa dei cimeli di famiglia, di ciò che è superato, eppure è indissolubilmente nostro. Quello che Giovanni, un tempo, è stato, è solo l’aspetto più chiaro ed importante di ciò che egli adesso è. E lui ne parla, con profonda e serena lucidità, sapendo di non averlo compreso fino in fondo, perché, comunque sia, non è ancora detta l’ultima parola.  

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