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Fedele alla linea

Regia di Germano Maccioni vedi scheda film

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La recensione su Fedele alla linea

di spopola
8 stelle

Una storia potente costruita intorno a una videointervista intensa e ben documentata, arricchita da brevi flash musicali scelti con amorevole cura che aiutano a far emergere l’essenza di un personaggio carismatico che per ragioni strettamente personali, ha fatto scelte molto radicali, spesso non comprese, ma per lui assolutamente necessarie.

Questa interessante e intensa pellicola di Germano Maccioni dedicata a Giovanni Lindo Ferretti (e distribuita in sala dalla Cineteca di Bologna  –  almeno nelle troppo poche che l’hanno accolta) non è una biografia in senso lato, ma l’appassionato e toccante ritratto a tutto tondo di un artista e di un uomo (e forse è proprio il secondo aspetto che viene privilegiato dall’autore poiché è molto lo spazio che è stato riservato al percorso privato così importante per le sofferte  implicazioni che sono all’origine dei frequenti mutamenti di pensiero e di prospettive della vita di una figura centrale come la sua che ha avuto il coraggio di mettersi spesso in discussione e di riflettere seriamente – ribaltandone spesso le prospettive rispetto alle origini – non solo su se stesso ma anche su ciò che lui adesso intende per musica, arte e spettacolo).

Una storia potente insomma, costruita intorno a una videointervista intensa e ben documentata, arricchita com’è da brevi, ma numerosissimi flash musicali del passato (e del presente) scelti con amorevole cura (rari filmati live e qualche dietro le quinte di particolare valenza documentale, oltre a brani dei rari concerti per voce, chitarra e violino che ancora si concede) che aiutano a far emergere l’essenza  (anche “drammatica”) di un personaggio carismatico che per ragioni strettamente personali, ha fatto scelte molto radicali, spesso non comprese nemmeno dal suo pubblico, che possono aver suscitato qualche perplessità, ma per lui indiscutibilmente “necessarie”,  per tutta una serie di motivazioni interne, intime e legittime che qui vengono perfettamente declinate e messe a fuoco da una regia che ci fa ritrovare intatta la cristallina forza poetica e la determinazione di un artista davvero inusuale (e non solo nel nostro panorama musicale) per certi versi persino spigoloso, che nella sua esistenza ha abbracciato, credo non senza qualche lacerazione, comunismo e cristianesimo, nichilismo punk e legame con le radici, e che oggi grazie al ritrovato, diretto rapporto  con la terra e la natura, sembra finalmente essere tornato di nuovo in pace con se stesso.

 

Non fare di me un idolo, mi brucerò.

 

Giovanni Lindo Ferretti come ben sappiamo, è stato per anni il leader indiscusso (e osannato) dei CCCP e poi dei CSI, un personaggio che era diventato un vero e proprio oggetto di culto (per i suoi fans) nelle sue differenti (ma straordinarie) esperienze musicali, che aveva già in passato sollecitato l’interesse per altri filmati su lui e la sua carriera (Tempi moderni di Luca Gasparini, Sul 45° parallelo di Davide Ferrario, dai quali anche qui vengono riproposte alcune sequenze).

Arrivato però all’apice del successo, si è poi piano piano eclissato, fino al ritiro quasi ermetico sulle montagne dell’Appennino emiliano che gli hanno dato i natali, un prolungato “silenzio” interrotto soltanto dall’attività letteraria che ha comunque continuato a coltivare e da rarissime incursioni sul palcoscenico (quelle a cui ho già accennato sopra). Un andamento spesso a ritroso per ritrovarsi, che ha portato sommovimenti profondi non solo nelle sue scelte esistenziali, ma anche in quelle ideologiche che hanno disorientato il  pubblico e che nemmeno i media hanno compreso e “gradito”, ma che certamente dopo ave visto questo eccellente tributo, risulteranno a tutti ben più chiare e accettabili anche per coloro che con maggior accanimento lo avevano nel frattempo criticato aspramente quasi rinnegandolo, arrivando persino a parlare di “tradimento” (uso parole forti ma che mi sembra possano ben  interpretare il senso di “disamore” quasi rancoroso che gli ha alienato una fetta abbastanza consistente  dei consensi soprattutto da pare dei suoi fans originari).

Videointervista infatti, ed è proprio attraverso questa che Ferretti racconta in prima persona senza enfasi e con molta sofferta umiltà, le fasi salienti del suo percorso di vita, partendo proprio dalle radici mai rinnegate con la propria terra:  gli anni della sua infanzia (cattolica e contadina) trascorsi in un piccolo paese quasi avulso dal resto del mondo tanto era isolato; il suo successivo  approdo al collegio con il contato con le più vaste realtà della città; la scoperta del canto (con un’esperienza traumatica davvero traumatica allo Zecchino d’oro), e successivamente,  il suo rapporto con Lotta Continua, la contestazione, e poi il fondamentale viaggio a Berlino che fornirà l’occasione per l’incontro e la nascita del sodalizio artistico con Massimo Zamboni (è appunto con lui che – scompigliando il clima un po’ asfittico e da calma piatta del panorama musicale di quegli anni -  fonderà i CCCP e successivamente i CSI). E poi ancora, la grave malattia, esperienza centrale della sua esistenza  (“la parte più vitale della mia vita”  come dichiarerà lui stesso), fino al cruciale viaggio in Mongolia (una vera e propria “guarigione” almeno dell’anima) terra di pastorizia e di cavalli (la sua passione) e il successivo ascetico e discusso (dai media, dai fan) ritorno alle proprie radici (di una “cristianità” quasi cristologica), alla sua terra, e la conseguente, commuovente riappacificazione con la madre finalmente “ritrovata” (è intrisa di commossa lucidità la dolente rievocazione che Giovanni fa del suo difficile rapporto con una genitrice che aveva vissuto la carriera e il successo del figlio con silenzioso distacco e molta indifferenza).

Ogni uomo ha le proprie spaccature e ciascuno ha il diritto (e il dovere) di ricucirle a suo modo anche lasciando gli altri disorientati, l’importante è che nel ricercare il necessario equilibrio, si rimanga “fedeli alla linea” (o per essere ancora più chiari, “fedeli alla propria linea”, una prerogativa questa che Lindo Ferretti, con una profonda e assoluta onestà intellettuale che gli fa onore, ha sempre privilegiato e rispettato).

E’ da questo suo raccontarsi con toccante sincerità che emerge infatti chiaramente come proprio nell’arco di una carriera lunga e feconda, l’amore incondizionato del pubblico e la stima dei critici non hanno impedito lo svilupparsi in lui di un senso d’incompiutezza (fortemente acuito dalle malattie che lo hanno colpito) che si è trasformato in una crescente insoddisfazione, in un vuoto che solo il recuperato rapporto con la natura e la cultura arcaica ha saputo colmare permettendogli così di “rigenerarsi” in questa sua attuale, personalissima modalità di “lavoro” e di riflessione che lo ha portato a dare nuovo respiro e forma a una inusuale modalità di creazione artistica barbarica e a suo modo “molto proletaria” (Saga. Il canto dei canti ) espressa attraverso il teatro equestre e anch’essa ben documentata dalla pellicola.

Una regia dunque teneramente coinvolgente quella di Maccioni che ha costruito il necessario “contatto”  che riesce a restituirci in toto (anche se in differente maniera  rispetto a un passato che si allontana sempre di più)  la grandezza di un artista come Ferretti che pensavamo di aver smarrito (e forse definitivamente perduto per sempre,  rendendoci così quasi “orfani”) dopo anni di assidua e partecipata frequentazione, che è anche il racconto di un uomo che, nonostante affinità e divergenze, non s’è mai fatto pensare dalle ideologie, dalle contingenze, dal mondo (Giulio Sangiorgio) ottimamente orchestrata sui tempi solenni che rimandano al respiro della terra  e dove le note dei CCCP che fanno da accompagnamento musicale, sono  perfettamente surrogate (rese superbe) dalle altrettanto magnifiche immagini “contadine” (importante intuizione che dà un respiro particolare all’insieme) recuperate dalle straordinarie opere del grande Cinema Sovietico del passato, tutte strettamente legate a tematiche che i registi di allora (che portarono un contributo fondamentale proprio all’evoluzione del linguaggio cinematografico) conoscevano già molto  bene: non solo il comunismo e la terra, ma anche la forza catartica di un realismo che grazie alla forza sublime delle riprese, si fa “pura poesia”.

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