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Lo sconosciuto del lago

Regia di Alain Guiraudie vedi scheda film

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La recensione su Lo sconosciuto del lago

di EightAndHalf
8 stelle

L’inconnu du lac è un film contemplativo all’ennesima potenza, nasce dalla contemplazione e si sviluppa grazie ad essa. Nessun film effettivamente ha senso se non ha spettatori, ma il film di Guiraudie è strutturalmente composto dalla fruizione di uno spettatore, necessariamente passivo rispetto una ripetizione continua e mai stanca di eventi sempre guidati dal desiderio e dalle pulsioni più basse e spontanee. Si osservano, infatti, fin dall’inizio, tanti uomini senza nome che si denudano sulla riva di un lago e si rimorchiano a vicenda per poi avere rapporti sessuali nel bosco limitrofo, a comporre una sorta di comunità nudista-gay assolutamente separata dal mondo reale. Una parentesi esistenziale in cui sono le pulsioni a regnare. Sulla stessa riva, però, un anziano uomo appare, un uomo grasso e solitario, lontano da quella realtà eppure immerso in essa. Egli la osserva dall’interno, non riuscendo ad addentrarvisi se non con la vista, con gli occhi, con la disperazione. Grazie a lui possiamo, noi spettatori, osservare gli eventi che eventi non sono.

 

Il film sembra iniziare immettendosi in una ruota in perenne movimento, un loop che dovrebbe essere liberatorio e che invece ha le fattezze di una prigionia di illusoria libertà. Con freddezza, le macchine vanno a posizionarsi sempre allo stesso modo perché i frequentatori della spiaggia possano raggiungere sempre allo stesso modo sempre la stessa spiaggia. Non ci sarebbe dunque storia, se non fosse per l’uomo grasso (lo sconosciuto del lago?), non ci sarebbe una vera e propria trama: l’immissione dello sguardo irrompe nella meccanica irrazionalità di quell’aere cristallino e vibrante per intromettere la sua presenza. E nello stesso momento cominciamo ad osservare anche noi. Ma perché osserviamo?

 

Mentre la contemplazione va avanti, e la sottile barbarie di uno dei bagnanti esplode ai danni di un suo amante, in uno splendido piano-sequenza in cui quest’ultimo annega e il suo assassino torna lentamente sulla spiaggia, all’ora del tramonto, noi continuiamo a partecipare e ad intrometterci, pensando illusoriamente di aver assunto il punto di vista del protagonista, ma in realtà rimanendo estranei a questo circolo di impulsi in cui l’assassinio è lo zenit agghiacciante. Le scene erotiche, in certi momenti praticamente pornografiche, si spogliano della loro veste invitante e/o repulsiva e diventano i freddi gesti di una quotidianità fatta di funzioni organiche e fisiologiche, non alla luce di un’eventuale scientificità, ma a causa di un’estraneità che perdura nonostante si parli della nostra dimensione più naturale, istintiva, irrazionale. Dunque più vera. La non-trama diventa trama gialla e trama sentimentale, con il duplice percorso, parallelo, dell’interesse del protagonista per l’assassino, nonostante il protagonista stesso sappia che si tratta di un assassino, e quello dell’assassinio, che porta inevitabilmente a un ulteriore fattore straniante e prettamente osservativo: il commissario, che si presenta, pronuncia il suo nome, destinando definitivamente la fauna umana di quella spiaggia a dirigersi verso una storia, una direzione. Verso il canto funebre del desiderio, e lo smascheramento dello stesso.

 

Due fattori così si inseriscono nella vicenda, due sguardi, quelli dell’uomo misterioso, di nome Henry, e quelli dell’ispettore. Due sguardi fatti per scopi diversi, ma comunque capaci di rivelare esplicitamente la natura meccanica dello stile di vita del protagonista (Franck) e dell’assassino di cui Franck è innamorato (Michel): lo sguardo di Henry e dell’ispettore, come lo sguardo dello spettatore, intervengono a individuare la trama circolare e ridondante del desiderio corporale e a interromperla, oltre che con il sentimento, con il sangue, la morte, la linearità. L’inconnu du lac così saltella come i piedi bruciati sulla sabbia rovente da un lato e dall’altro, tra trama e non-trama, fino a un annullamento che andrebbe “spoilerato” per far comprendere la “risoluzione”, ma che è anche fattore integrante della visione e dunque non può essere davvero spiegato a parole. Un film dunque che riconduce il cinema al significato stesso dell’osservare, senza prurigine ma con reale problematicità filosofica. È chiaro, poi, che la direzione non può che essere la morte. Ma di chi? Della trama, della linearità, della luce, dello sguardo (di Franck, che impara a vedere, e dello spettatore)? Si torna, insomma, alla circolarità impulsiva, o se ne è compresa la meccanicità, perché la si è guardata da fuori? Chi è, in conclusione, lo sconosciuto del lago? Franck l’habitué? Michel l’assassino? L’ispettore, che interviene improvvisamente sempre uguale e sempre ricoperto da una veste esplicitamente metaforica? Henry, che fa le veci dello spettatore?

 

No, è lo spettatore stesso lo sconosciuto, il corto circuito del desiderio animale. E se la circolarità si può riottenere solo a partire dal sangue, non c’è proprio più niente da vedere. Si annullano definitivamente i punti di vista. Ed è il buio.

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