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Re per una notte

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Re per una notte

di lamettrie
9 stelle

Un bel film, soprattutto molto istruttivo. Mostra la psicopatologia di chi ha ossessioni di grandezza e perde di vista il senso di realtà e dei propri limiti.

De Niro è strepitoso in una parte difficile: è sempre lucido nella follia che è lui stesso innanzitutto ad alimentare. Malato di protagonismo, il narcisista non si ferma dinnanzi a nulla: tutti giustamente lo disprezzano per gli errori, le scorrettezze che compie, che sfociano alla fine in reati. Eppure questa determinazione lo porta al successo: ma non perché egli effettivamente lo meriti, ma solo perché è più determinato di altri nell’essere un fenomeno di baraccone, mentre altri (alcuni tra gli altri, almeno) per loro fortuna si ravvedono prima, con un guizzo di dignità ben maggiore. Il suo numero è penoso, ma la gente ride: il vero obiettivo critico di Scorsese è il pubblico, la sua demenza media che finisce per premiare e osannare gente senza alcun talento reale né merito. Ma il suo obiettivo polemico è anche lo star system, che premia appunto gente di scarso o infimo valore, per tenere basso il livello culturale. E terzo obiettivo è anche il “sogno americano”, di cui Pupkin è una parodia, di cui si mostra l’assurdità: viene mostrato come qualcosa che è alla portata di tutti, basta crederci; ma alla fine non ha nulla di genuino, è solo una panzana per tenere buona la gente facendole credere che tra un po’ diventerà celebre, impedendogli così di vedere realisticamente i propri problemi per trovarvi una soluzione. Credo che sia per questo che il film è stato un fiasco in America: nell’83, al culmine dell’idiozia capitalistica e reaganiana, il pubblico americano forse poteva apprezzare solo porcherie, dal punto di vista culturale, e non poteva che bocciare prodotti seri, che lo criticavano.

E infatti il personaggio di De Niro ottiene il successo che sperava, e vende copie della sua biografia, nonostante sia ben poca cosa: ma solo perché il pubblico è becero. Poi non si può sapere se tale successo nel finale accade veramente: infatti tante volte il pubblico è messo nell’incertezza, se ciò che vede accade davvero, oppure no e si tratta quindi di un delirio interno a Pupkin/De Niro. Fra l’altro è interessante pure il ruolo della madre: parla, richiama il figlio a non fare rumore. Ma esiste? Sembrerebbe di no: infatti non si vede mai, e soprattutto suo figlio continua ad andare avanti imperterrito a fare ciò che stava facendo prima, come se la madre neanche ci fosse. Del resto se lui parla con una madre non più esistente, non sarebbe strano, per un attore abituato a parlare con le comparse di cartone (come fa Pupkin per provare il suo numero), non tanto distante dal Perkins di Psycho. Ma parlare con la madre assente sarebbe un ulteriore segno del delirio di Pupkin, retaggio castrante di chi lo vuole ricondurre a una realtà i cui limiti lui si rifiuta di accettare. E anche l’amica di De Niro risente della medesima mania ingiustificata di grandezza: i loro dialoghi, di due squilibrati eppure così apparentemente decisi, sono l’esempio più riuscito per cui si può dire che questo è uno dei migliori omaggi che il cinema ha reso alla psicologia.

Il film ha anche le sue pecche: specie nella prima parte, è un po’ compassato, con scene piuttosto fredde. Ma questo, a suo modo, aiuta l’esito finale, che è di una pulizia estetica impeccabile.

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