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L'autunno della famiglia Kohayagawa

Regia di Yasujirô Ozu vedi scheda film

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La recensione su L'autunno della famiglia Kohayagawa

di EightAndHalf
8 stelle

La vita fugge via con estrema, eccessiva semplicità. Il ricorrere continuo di stagioni e periodi della giornata nei titoli di Yasujiro Ozu sottolineano con eccezionale parsimonia questa naturalità con cui fluiscono pensieri, parole, azioni e persone, e non negano certo l'imprevedibile e il nostalgico, ma li conglomerano in una dimensione filmica che appartiene a un altro universo, e che lo spettatore occidentale accoglie come semplice e candida, serena, rassegnazione - anche se al loro interno celano tanta complessità culturale che meriterebbero uno studio specializzato. La natura fa sempre il suo corso, dice la coltivatrice alla fine del film, in quel breve sipario in cui fa la sua apparizione il feticcio Chishu Ryu a pronunciare il senso ultimo del film e del cinema di Ozu, la contemplazione mai invadente dei sentimenti umani e la loro messa in scena senza pretese maggiori di quelle esplicitamente rappresentate. Se la natura procede con il suo alternarsi e continuo sostituirsi, con l'accavallarsi quieto e leggero delle stagioni, dei climi, delle generazioni (l'immagine delle luci cittadine con su scritto New Japan si rivede più volte a sottolineare il perenne senso di placida trasformazione),

 

 

allora è certo uno dei tanti eventi umani (sempre emblematici, sempre importanti) quello - semplicissimo - che contraddistingue la famiglia Kohayagawa del titolo, quella che sta per attraversare un periodo autunnale a causa del preannunciarsi della vecchiaia e della morte. Il padre, Manbei, proprietario principale dell'azienda di famiglia, rimasto vedovo per molto tempo, cerca di organizzare il nuovo matrimonio della nuora rimasta vedova del figlio, e della figlia minore, innamorata intanto di un altro uomo trasferitosi in una località lontana e difficilmente raggiungibile. Il riavvicinamento di Manbei a una sua vecchia fiamma da cui - forse - ha avuto una figlia - al momento dei fatti raccontati ventunenne - non solo scatena l'irritazione di una delle figlie, ma genera la curiosità di moltissime altre persone, nonché la paura che simile comportamento possa in qualche modo incidere sull'onore della famiglia.

 

 

 

Ozu non impiega troppo tempo a raccontare i suoi eventi, benché la natura narrativa delle sue storie sia sempre evidente e fondamentale (fluidissima, oltretutto, nonostante la scelta decisiva di non spiegarla schematicamente): quello che gli interessa è immanentemente l'atmosfera delle singole situazioni, dei singoli scambi dialogici che si tengono fra i vari protagonisti. Benché la figura di Manbei prevalga all'interno dell'intera giostra di caratteri,

 

 

altri personaggi risplendono in tutta la loro magnifica semplicità: la nuora, interpretata da Setsuko Hara, qui in una delle sue ultime interpretazioni, con un sorriso sommesso e sottilmente doloroso - indimenticabile - sempre stampato sul volto (anche lei onnipresente nei film di Ozu, da ricordare sicuramente in BanshunTarda primavera);

 

 

il nipotino di Manbei, inarrestabile, instancabile e tenerissimo nonostante appaia in appena due sequenze;

 

 

la figlia che redarguisce sempre il padre per le consuete visite alla sua vecchia amante;

 

 

la figlia della vecchia amante, americanofila che ha appuntamento sempre con ragazzi americani differenti e desiderosa di una nuova pelliccia di visone nonostante il caldo della giovane stagione autunnale;

 

 

l'uomo che organizza l'appuntamento fra la nuora e un suo nuovo aspirante marito;

 

 

e tanti, tanti altri, ad adornare l'immagine quasi bidimensionale della regia di Ozu, apparecchiata all'occorrenza per constatare il pacato evolvere dei fatti umani.

 

 

Come di consueto, la telecamera è sempre posizionata bassa, sempre a porsi al di sotto dei suoi personaggi, che godono in ogni singola inquadratura di una grandezza quasi eroica, nella loro pacifica normalità: ce lo racconta bene Wim Wenders nel suo Tokyo-Ga, quando osserva con le dovute riverenze l'apparecchiatura utilizzata dal grande regista giapponese. E, come in altre sue pellicole, assumono fondamentale importanza dettagli che sarebbero stati tralasciati se la mise en scène avesse richiesto maggiore fretta nell'esposizione degli eventi: resta impressa l'onnipresente lampada blu del terrazzino di casa Kohayagawa, spesso contemplata da Ozu con altrettanta attenzione, quasi come se anche verso tali oggetti di arredamento si dovesse presentare un ossequioso rispetto. 

 

 

E non è un caso che Ozu sia uno dei massimi esponenti della storia del cinema orientale tutto: la silenziosa sensibilità del suo sguardo non si nega nulla, né l'improvviso soffermarsi sulle luci ultratecnologiche della città in trasformazione, né la successione inquieta di mattonelle sui tetti delle case, né i nuovi indumenti delle ragazze più giovani (da questo e da altro, evidente l'importanza del colore, utilizzato con eccezionali risultati espressivi), né il gracchiare dei corvi in un finale da brividi che nella sua rilassata tragicità unisce morte e vita nella stessa immagine, nella stessa inquadratura, annullando qualsivoglia generalizzante pessimismo, privandosi di quel carattere funebre che alcuni potrebbero accusargli, e ricongiungendosi al panta rhei dell'esistenza, adagiandosi quasi nell'adorazione di quella cangiabilità umana che contraddistingue l'avvolgente trasformazione insita fra una generazione e un'altra, fra la vita e la morte, fra una vita e un'altra vita, fra una persona e un'altra in un semplice dialogo, in un istantaneo scambio umano all'insegna della benevolenza.

 

 

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