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Giovane e bella

Regia di François Ozon vedi scheda film

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La recensione su Giovane e bella

di scapigliato
10 stelle

C’è un ragazzino che scruta morbosamente dal binocolo una ragazza in topless sulla spiaggia. Poi la raggiunge. È sua sorella, si chiama Isabelle, è inspiegabilmente bellissima e quella sera perderà la verginità prima di compiere diciassette anni il giorno seguente.
L’incipit dell’ennesimo film liquido di François Ozon ci mette davanti ad una delle tematiche non solo più care al regista, ma a tutto il cinema francese recente e passato. Sia il cinema d’oltralpe che quello iberico e in una buona parte anche quello tedesco e quello scandinavo, si sono distinti in questi ultimi dieci anni del nuovo millennio per aver affrontato con piglio serio e deciso, solo a volte leggermente voyeuristico, ma mai gratuito e scontato, la tematica sessuale ben esplicitata e l’annessa esibizione del nudo sia femminile sia maschile, quest’ultimo vero nuovo traguardo della tematica, lontano anni luce dal tabù secolare che castrava il fallo e tutte le sue dinamiche sociali e gerarchiche.
Queste cinematografie, che forse trovano in I Sognatori (2003) di Bertolucci il film maestro, non tacciono i problemi, le paure, le gioie, le tensioni e le problematiche tutte dell’esperienza sensibile per eccellenza, quella sessuale, corollario diretto di un imprescindibile evento di partenza, la nudità del corpo. In Giovane e Bella, Ozon racconta tra incanto e disincanto l’educazione sessuale di una ragazzina sorprendentemente già donna, senza adottare uno sguardo preciso e lasciando che l’azione, il gioco erotico, i silenzi e le rare confidenze con il fratellino Victor, parlino con sincerità del percorso sia affettivo che anaffettivo della bellissima Isabelle.
Interpretata da Marine Vacth, la ragazza protagonista non è solo giovane e bella come annuncia il titolo, ma è anche pericolosamente seducente, adulta in un corpo adolescente e adolescente in adulte tensioni. Il suo corpo perfetto, religioso, assoluto è il tempio dell’esperienza rousseauiana. Marine Vacth, acerba se confrontata con le muse erotiche di oggi, dalla Johansson alla Green, dalla Seyfried alla Stone, riesce a superarle tutte, forse proprio per la sua sconcertante primaveribilità seduttiva, portata con consapevolezza, come se una donna indossasse un bellissimo abito da sera consapevole che il giorno dopo sarà già passato di moda. Forse sarà la benedizione di tale corpo, la sua scontrosa infantilità, la sua candida posa davanti al mondo. E sempre a Rousseau torniamo.
Candida, la Vacth ci porta per mano in un’opera né moralistica né birichina, né oscena né scandalosa, né voyeuristica né ipocrita. Giovane e Bella è la drammatizzazione di una deflorazione. Il divenire donna come significante licantropico di mutazione sia fisica che psichica, sociale e morale. Attraverso la libido che la protagonista insegue con determinata leggerezza, anche noi, spettatori morbosi e curiosi, sondiamo la puberale istintualità che ci attraversa lungo l’arco della vita. Ritroviamo una verginità dimenticata o mai avuta – o anche perpetua, perché no? – e ritorniamo d’incanto là, a quella spiaggia della nostra adolescenza, a chiederci dove volevamo andare e dove siamo arrivati.
Se in Amanti Criminali (1999) Ozon buttava nel sacro teatro della natura selvaggia l’instabilità emotiva degli adolescenti in tumulto sessuale, pervertendo la fiaba di Hansel e Gretel e cambiando segno all’orco archetipale, elevandolo così ad angelo salvatore, e infine risolvendo i blocchi emotivi attraverso la sperimentazione di una sessualità selvatica e non allineata; e in Gocce d’Acqua su Pietre Roventi (2000), da Fassbinder, il regista metteva in scena la liquidità dell’isteria borghese sclerotizzata dai rapporti di forza e dalle divisioni classiste come sessiste che tramutavano la rincorsa al piacere sessuale in una gara di poteri incontrollati; e mentre in Swimming Pool (2003) la stessa liquidità immobile e domestica che scatenava la morbosità di una scrittrice di gialli, avvizzita e patetica, diventava la liquidità con cui passione e ricerca di sé si mescevano torbidamente nella scoperta di eros e thanatos; qui in Giovane e Bella, quella liquidità marina, o lacustre per citare Lo Sconosciuto del Lago (2013) e l’Ozon de Il Rifugio (2009), anche se rilegata al solo primo capitolo estivo della vicenda, impasta di salubre salsedine e di calore solare tutto il resto delle avventure di Isabelle nel paese delle meraviglie, permettendo così la non identificazione razionale di nessuna ideologia sottesa alla narrazione della storia.
Il mito dell’uomo adulto come sogno erotico, di cui il corpo adolescente maschile non può eguagliare la virilità e la fantasia di dominio che ne deriva, rivive nella pellicola di Ozon di un rispetto e di un decoro leggeri e tali per cui le ragazzine del film possono arrivare a dire “che noia questi ragazzi” desiderando l’adulto, il suo fisico, il suo fallo, la sua forza e quelle sue mani grezze che accarezzano visi angelici. Gli adolescenti sono così rilegati a macchiette. Marginali interpreti di una bellezza estetica, privi di quella sostanza sessuale che le loro coetanee reclamano per poi rifugiarsi di nuovo nel pivello per riequilibrare gli scompensi dovuti ad un’esperienza di educazione e formazione che ancora non sanno capire e accogliere. E così un bacio rubato a un compagno di scuola, mentre al festino qualche prode ragazzetto tenta orge o depistaggi alcolici, può ristabilire l’equilibrio perso, figlio di una disarmonia che aveva provocato il primo trasgressivo passo.
Inutile fiondarsi in analisi freudiane, come l’assenza del padre, o sociali, come la famiglia borghese annoiata e ipocrita, o simboliche, come la parabola esemplare di un peccato e di un’espiazione. Da notare piuttosto, che la protagonista non spende i tantissimi soldi guadagnati, perché non lo fa per denaro; e va notato che non prova piacere negli incontri sessuali in sé, a parte quelli con l’anziano George, poi convitato di pietra sotto le fantasmatiche sembianze della moglie, ma trova piacere nell’adescamento, nella compulsione di un appagamento virtuale che poi sfocia in una pratica sterilizzante; e va notato inoltre, che non c’è rabbia, non c’è ribellione e non c’è nessun disegno autodistruttivo e nessuna ripicca o vendetta dietro le sortite sessuali della protagonista; forse, e questo andrebbe notato e rimarcato, alla base c’è solo la semplice, infernale e apatica noia. Il buon vecchio tedio giovanile che una volta si combatteva in compagnia, nel consorzio umano, con trasgressioni varie e comunitarie – sia sessuali che alchemiche – e che oggi invece, è combattuto in solitudine nell’etere.
Il regista racconta così, con incedere poetico e a tratti onirico, non il vuoto di una generazione che ha ormai definitivamente sdoganato la sessualità come pratica esibitoria e prostitutiva, lontana dalla sua sacra funzione ribelle e anticonformista, bensì il valore di un percorso scabroso senza per questo giustificare la mercificazione del proprio corpo.
Poca cosa sarebbe il sesso se fosse un barattolo di latta sullo scaffale di un supermercato. La compravendita del piacere sessuale è de­leteria e disumana, ma quello che interessa ad Ozon, e ci riesce senza etichettature previe, è l’esperienza. Esperienza che non si ferma al solo corpo della protagonista, ma che coinvolge anche quello della madre, con la sua cieca furia nevrotica, quello del patrigno, con un’attrazione carnale regolarmente castrata, quello della compagna di classe, con la sua prima volta disastrosa, quello del primo fidanzatino, con l’erezione raggiunta con l’aiuto di un dito nell’ano, fino a quello del fratello Victor sul cui imberbe corpo preadolescenziale il regista indugia troppo spesso per essere solo un caso, come se fosse una seconda faccia della stessa medaglia, quella maschile, ancora ambiguamente in bilico tra l’ammirazione della sorella, quasi volesse esserne un suo doppio, e le reiterate asserzioni machiste.
L’esperienza sessuale, in Ozon, grazie ad un racconto asciutto, preciso e privo di orpelli informativi, finisce per essere l’esperienza sensibile per eccellenza, delegando al corpo ogni responsabilità etica e umana, non intelligibili all’occhio medico e all’osservatore morale, ma solo alla nostra individualità.

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