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Prisoners

Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film

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La recensione su Prisoners

di ROTOTOM
6 stelle

Primo film americano per Denis Villeneuve, autore canadese già consacrato nei festival internazionali grazie ai suoi precedenti film Polytechnique (2009), sulla strage al politecnico di Montreal compiuta da uno studente nel 1989 e La donna che canta, candidato canadese all’Oscar come Miglior Film Straniero nel 2011



Prisoners scritto da  Aaron Guzikowski  già autore di Contraband (2012) è un  thriller cupo nel quale la sparizione di due bambine scatena una spirale d’odio e di vendetta che non risparmierà nulla e nessuno.  Il  titolo, così, al plurale insinua il sospetto che i prigionieri non siano solo i rapiti,  alludendo anche e soprattutto all’essere prigionieri tout court di pregiudizi, paure, dolore.
Gabbie talmente fitte da non lasciare filtrare nessuna luce. Quella descritta è la buona società rurale già esposta in centinaia di altri film, quella delle casette ordinate, dei solidi lavoratori piantati a terra nelle loro certezze e inorgogliti da una strisciante, sotterranea crisi economica che dovrebbe consolidare la famiglia attorno a solidi valori morali.



Ma già dall’inizio Villeneuve smorza i sorrisi con le crepe della paura. I personaggi, quando varcano la soglia di casa sono già persi, la tragedia è già consumata. Là fuori ci sono persone cattive, la società è formata da persone cattive.
O solo perse dentro tragedie più grandi di loro.  Il tema è anch’esso sfruttato a dovere, e declinato in più varianti. Il rapimento  o scomparsa di bambini: l’innocenza tradita da un’ America, corrotta e impietrita dalla paura di ciò che i bambini rappresentano in una società: il futuro.   Il rapimento delle due bambine , in pieno giorno, è solo la conferma di quanto i loro genitori si aspettano .
Quasi come fosse qualcosa di inevitabile. I bambini guardati a vista, il fischietto rosso anti panico, sono solo aspetti esteriori di un mondo interiore innervato dalla  paura atavica, indicibile, del buio assoluto.



Keller Dover (Hugh Jackman) e Grace Dover (Maria Bello), genitori, si confrontano con il Detective Loki (Jake Gyllenhaal), incaricato delle indagini. Uno che ha risolto tutti i casi a lui affidati.
Dover e il detective Loki si sfidano ad un duello silente, si osservano e studiano. Alfieri della Fede e della Razionalità, sono archetipi di due mondi atavicamente in conflitto tra loro. L’indagine scoperchierà un brulicare di violenza e misteri che come un cancro , nascosto ma sotto gli occhi di tutti, ha sempre divorato giovani vite.



C’è molto cinema americano classico in questo thriller, a partire dalla figura dell’ispettore solitario, psicologo per necessità, osservatore e acuto tessitore di trame apparentemente insignificanti. Ma c’è anche il tentativo di Villeneuve di affrancarsi dagli stereotipi diluendo il nero in zone di grigio,  la cui la fotografia plumbea ad opera di Roger Deakins, soprattutto quella notturna, rimanda visivamente ad un espressionismo tetro e incombente.



Sono tutti malati di violenza, a Villeneuve interessa l’abisso nel quale sprofondano i suoi personaggi, la memoria del male rimossa dalla coscienza e colata come un veleno nella terra. Particolari che ritornano a mostrare la verità. Memoria di dolore che conduce ad altro dolore e porta le vittime a reiterare ciò che hanno subito, verso altre persone.
False piste, prigionieri di un male più grande della vita stessa. Dolore instillato con la sicumera dell’uomo giusto.
L’uomo di fede, affondato in simbolismi che hanno perso il loro senso rimanendo baluardi dietro cui nascondere l’inadeguatezza  per poi brandirli e rivendicare il proprio ruolo. Il personaggio di Hugh Jackman, sventrato dal ruolo del padre (nostro) che fa ciò che deve – parole della moglie – per salvare la propria figlia , è il perno su cui ruota il sotto testo sociale e religioso della comunità ristretta – anche intellettualmente – del buon americano medio. 

Egli si sostituisce a Dio nel dispensare giudizio e castigo, forte della propria fede che giustifica la prigionia e la tortura di Max, un povero demente (un magnifico Paul Dano), pratiche che egli si immagina perpetrate sulla sua bambina.  L’aspetto religioso è importante, l’affresco catacombale della società rurale americana è sottolineato da uno score musicale ad opera di Jóhann Jóhannsson  che impone la solennità delle musiche agli atti di fede che i personaggi compiono in stato di necessità.
Atti di fede che comprendono la violenza più cieca.

Molto interessante il tessuto che Villeneuve cuce con i punti precisi dell’indagine, complessa e ricca di diversi punti di vista e di interpretazione.   Per tre quarti è un buon film, visivamente affascinante, tenuto quanto più possibile (ma non sempre)  lontano dal didascalismo e sorretto da una costante tensione emotiva anche se ricorrono trucchi di sceneggiatura abbastanza facili per chi è avvezzo al genere o a simbologie che  più che all’avanzamento dell’indagine , servono da mappe allo spettatore per non perdersi nell’intrigo. 



Quello che non riesce a fare il regista è essere ancora più secco e risoluto. Se si vede la mano in regia è anche vero che la potenza espressiva che ha caratterizzato i suoi precedenti due film è anestetizzata dalle castranti regole del cinema mainstream americano.
La retorica fiorisce ad ammuffire l’affresco e viene perso di vista il senso ultimo del film a vantaggio dell’ esplicazione: questo il peccato originale. Non trascendere mai oltre un certo limite e spiegare il più possibile.
L’impianto faticosamente costruito in due ore di accumulo di indizi, sospetti, garbugli sullo sfondo di una società in decomposizione, viene sbrigativamente risolto degli ultimi venti minuti, durante i quali per chiudere tutti gli spunti narrativi purtroppo vengono abdicate  l’introspezione e la sospensione narrativa a vantaggio del canonico “spiegone” finale e di un forzatissimo finale conciliatorio.
E questo è un peccato , poiché si nota in tutta la sua necessità commerciale lo scarto tra il tenore del film – un crogiuolo di male che non lascia scampo-  e la sua chiusa che invece tradisce ogni aspetto emotivo e narrativo fino a quel momento espressi.



Denis Villeneuve cade così come altri illustri colleghi nella rete subdola del cinema americano che sforna prodotti il più possibile uguali a se stessi smorzando ogni idea originale. Le zone di grigio si diceva, ecco, dove Villeneuve mischia per confondere, la sceneggiatura ad un certo punto impone la divisione netta di bianco e nero. Così da comprendere il tutto con esattezza .
Anche in questo caso le possibilità sono due: l’atto di Fede al quale abbandonarsi e credere nella rivelazione del mistero; il distacco Razionale con il quale misurare il compromesso della finzione e la sua distanza dal reale.
Io sono per la seconda.

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