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Il capitale umano

Regia di Paolo Virzì vedi scheda film

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La recensione su Il capitale umano

di LorCio
8 stelle

A vario titolo, i personaggi che abitano Il capitale umano hanno scommesso sulla rovina di questo paese e hanno vinto, a mani basse aggiungerei. Per rovina non s’intende solo il dissesto economico e finanziario in cui versiamo da ormai tempo immemore, ma anche decadenza nel senso più triste del termine, un declino morale, la totale assenza di qualsivoglia forma di reale solidarietà, il fallimento della comunità. Da troppi anni ci dobbiamo sorbire la manfrina de “la crisi che viviamo è innanzitutto culturale”, ma magari conviene scavare più a fondo e, sì, certo, questa crisi è innanzitutto culturale perché se ne frega della cultura. Per cercare di raccapezzarsi in tale magmatica materia, Paolo Virzì è andato a pescare nella letteratura americana, sottolineando così la globalizzazione della catastrofe: ne è venuto fuori il suo film più lucido, cinico, tetro, scritto assieme a Francesco Bruni e Francesco Piccolo con un rispettoso occhio al grande cinema d’altri tempi.

 

Come non notare, in questo film complesso (per gli standard nazionali) e sprovincializzato (malgrado la provincia che racconta), riferimenti alla struttura narrativa de La contessa scalza o a certe evocazioni de La fiamma del peccato? E come non pensare, in sottofondo, alcune atmosfere alla commedia all’italiana meno compromessa con l’obbligo di far ridere per forza? Articolato attraverso tre capitoli che narrano altrettanti punti di vista della vicenda (Dino, immobiliarista cinquantenne, che spera di svoltare entrando nel fondo del nuovo “consuocero” Giovanni con soldi che non possiede; Carla, moglie annoiata di Giovanni, che si illude di “rinascere” ristrutturando un teatro; Serena, figlia di Dino e “fidanzata” del figlio di Carla e Giovanni, e i suoi turbamenti) e uno finale che cerca di tirare le fila della faccenda (“il capitale umano”, appunto), Virzì lavora con estrema precisione sull’arte di sottrarre, senza comunque togliere niente al ritmo e alla tensione di un noir che cerca una via nostrana al genere, offrendo allo spettatore le varie possibilità una storia spezzata e la sicurezza della persistenza della menzogna.

 

Forse, a livello di sceneggiatura, c’è qualche problema nel capitolo finale, in cui la necessità di dare la conclusione più emblematica possibile raggela un po’ il tutto, ma ad avercene di copioni così completi ed asciutti. Con questo lavoro di levatura europea, ambizioso e impeccabile, Virzì ha osato, si è distaccato dal suo mondo di riferimento (una commedia all’italiana sincera con qualche sentimentalismo di troppo, pur di elevata fattura) e saputo sparigliare da gran professionista, confermandosi l’erede più affidabile dei maestri Risi e Monicelli. Il cast è scelto con cura, da uno spudorato e strepitoso Fabrizio Bentivoglio (in un ruolo che, quarant’anni fa, avrebbe fatto la gioia di Ugo Tognazzi) ad un algido e magnifico Fabrizio Gifuni (in un inconsueto nudo frontale), passando per una splendida Valeria Bruni Tedeschi e un’ottima Valeria Golino nel ruolo più immacolato della storia (una delle poche detentrici di speranza, essendo anche incinta, benché di un buffone), fino ai tre ragazzi che se la cavano egregiamente (Giovanni Anzaldo, Matilde Gioli, Guglielmo Pinelli) e qualche partecipazione importante (Luigi Lo Cascio, Gigio Alberti, Bebo Storti, Silvia Cohen). Molti momenti da antologia per il miglior film italiano della stagione finora.

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