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L'aria serena dell'Ovest

Regia di Silvio Soldini vedi scheda film

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La recensione su L'aria serena dell'Ovest

di ed wood
7 stelle

Questo film rappresenta dignitosamente lo stato dell’arte del cinema italiano a cavallo fra gli anni 80 e 90. “Cinemino” è stato ribattezzato, impietosamente ma non a torto; se gli inglesi negli anni 50 e 60 vantavano il cinema “kitchen sink” per indicare la dimensione domestica delle ambientazioni, noi ce ne siamo venuti fuori, 30 anni dopo (e dopo aver fatto la Storia del cinema, ben più che gli albionici), con questa sorta di cinema “tinello”, dove la gente (più o meno borghese) mangia, discute e vaga all’interno della propria rassicurante magione, secondo una deteriore prassi minimalista che, passando di regista in regista, è giunta probabilmente (speriamo) alla sua incarnazione definitiva con Ozpetek. Se quest’ultimo è divenuto emblematico di una ideologia (ed estetica) della “famiglia allargata”, il buon Soldini, in questo film dal titolo evocativo ed un po’ presuntuosamente poetico, si dedicava alle solitudini varie nella città più moderna e alienante d’Italia: di fatto, la Milano da bere (dove tutti i protagonisti hanno un lavoro più o meno soddisfacente e i drammi sono squisitamente sentimentali/esistenziali) è la vera protagonista di “L’aria serena dell’Ovest”. Soldini intervalla dialoghi e relazioni fra i personaggi con suggestive cartoline dei luoghi (comuni?) del capoluogo meneghino: la rotaia e i cavi del tram, i palazzoni, i lunghi corsi, la linea della metro, i locali notturni eccetera. C’è forse un eccesso di retorica nel voler a tutti i costi trovare un correlativo oggettivo degli umori dei personaggi nella grigia atmosfera metropolitana. Per fortuna però Soldini non si limita a questo: per tutto il film, specialmente nella prima parte, le immagini si giustappongono liberamente ad un sonoro extra-diegetico che vanta brevi e stranianti stacchi musicali e, soprattutto, le voci fuori campo registrate dei personaggi con cui Soldini, sfruttando un pretesto narrativo (il lavoro di intervistatore di Bentivoglio), presenta alcuni tratti dei personaggi. Se il vuoto delle anime è riempito da queste “voci lontane sempre presenti”, il vuoto delle vite quotidiane è riempito dalle trasmissioni televisive, dai notiziari, dalle cassette, dagli oggetti domestici più familiari. Come se Soldini raccogliesse in qualche modo il non-mondo reificato del ferreriano “Dillinger è morto” e lo adottasse in qualità di scenario per una commedia drammatica di costume. Il costume è quello volgarmente e superficialmente trattato in tanto cinema “paninaro” degli anni 80: l’identikit dell’homo italicus di quei tempi includeva dosi variabili di egocentrismo, anaffettività, consumismo, relazioni instabili, orizzonti culturali limitati. Va dato atto a Soldini di aver saputo rappresentare efficacemente la dolce deriva dell’uomo e della donna nell’incombente era post-ideologica (nei frequenti TG scorrono, nell’indifferenza generale, le notizie del crollo del comunismo), ma non ancora iper-tecnologica: il “social network” di 25 anni fa era ancora un fragilissimo filo legato ad una agenda telefonica. Laddove però il film perde colpi è quando, nella seconda parte, l’intreccio (anche romantico) si sviluppa, mettendo a nudo il pressapochismo psicologico e la opaca definizione dei personaggi: Soldini finisce quindi per riparare nelle secche di un cinema post-antonioniano senza mordente e senza troppe idee. E’ un peccato, ma in ogni caso resta la suggestione di un affresco di vite ossimoricamente tristi e serene, scandagliate da un montaggio audio-visivo che connette episodicamente e fugacemente le vite di estranei, per poi rapidamente separarle.

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