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L'uomo dal cranio rasato

Regia di André Delvaux vedi scheda film

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La recensione su L'uomo dal cranio rasato

di spopola
8 stelle

Un’opera fuori da ogni schema moderna e problematica che, sulle orme di artisti del calibro di Resnais e Fellini (il suo 8 ½), sperimenta inedite vie aperte sul futuro, sancisce la definitiva rottura formale e strutturale con la tradizione lineare del racconto e inventa una nuova sintassi narrativa che taglia definitivamente i ponti col passato.

La spiegazione reale dell’accadere reale non mi interessa. La mia memoria è cattiva. Inoltre i fatti sono sempre scambiabili. Mi interessa ciò che è spiritualmente tipico, vorrei dire addirittura l’aspetto spettrale dell’accadere. (Robert Musil)

 

Credo proprio che se vogliamo sintetizzarne un poco non tanto il senso, quanto invece l’approccio alla materia e il modo scelto per la rappresentazione delle cose, questo L'uomo dal cranio rasato (De man die zijn haar kort liet knippen) che il regista belga André Delvaux terminò di assemblare nel 1965 (e che fu poi  messo in distribuzione l’anno successivo), possa essere definito come la storia di un "uomo senza qualità" e delle sue ossessioni.

Il riferimento a Musil è a mio avviso tutt'altro che peregrino, poiché pur muovendosi poi l'opera in tutt'altre direzioni rispetto a questo libro "fiume" – più saggio filosofico che romanzo in senso lato devo dire – analogamente a quel che succede nel libro, anche il nostro protagonista definisce la sua vita dentro a una dimensione temerariamente sospesa fra azione e pensiero, realtà e finzione, il che determina un parallelismo spesso contraddittorio e discordante di visioni contrapposte, in un’inestricabile illusione percettiva delle cose che genera una versione deformata, incerta e ingannevole degli avvenimenti rivissuti e interpretati in una forma totalmente arbitraria e a volte persino menzognera.

Una verità sognata insomma che non sapremo mai quanto reale e quanto immaginata che si dibatte fra sentimenti distorti e l’assenza di una morale certa, che è anche a suo modo l’espressione di un dualismo quasi schizofrenico che infrange ogni logica razionale di osservazione critica alterando persino il concetto di responsabilità oggettiva, e che diventa la personalissima, metafisica visione dei fatti e degli accadimenti interpretati da un uomo che vive in una dimensione talmente astratta da lasciare tutto a mezz’aria e senza alcuna risposta inoppugnabile e condivisibile anche da parte del pubblico che osserva dalla sala,  poiché (tornando ancora a Musil e alle sue parole) se  un uomo sceglie la verità e a questa si attiene, diventerà scienziato; un uomo che invece vuole lasciare libero gioco alla sua soggettività magari opterà per fare il mestiere dello scrittore; ma che cosa può accadere a un uomo che cerca semplicemente di restare a metà del guado perché vuole qualcosa di intermedio fra le due opzioni e si dibatte incerto senza mai scegliere da che parte stare? Si perderà sicuramente nell’irrazionale io credo, in quella proiezione astrusa e incongruente alla quale è impossibile dare una definizione davvero inoppugnabile che possa andare oltre la privata e personale oniricità molto vicina al sogno e ai suoi spostamenti cervellotici che non hanno alcun senso logico, anche se sembrano più reali del reale, e che per questo diventano quasi una dimensione alternativa del vissuto, e forse anche la sola in cui si finisce per credere ciecamente nonostante le sue palesi incongruenze.

 

Il romanzo di Musil – che parla appunto di un uomo “senza qualità” e senza sentimento, è giustamente considerato insieme  all'Ulysses di Joyce e alla Recherche du temps perdu di Proust il prototipo fondante del romanzo moderno e una delle opere più importanti del secolo scorso. Insieme, hanno modificato la forma e la sostanza della scrittura, ciascuno di loro in una differente prospettiva, ma tutti e tre davvero straordinari nell’aver coraggiosamente aperto le porte all’inimmaginabile, fra arditezze della forma e una descrizione minuziosamente credibile di ciò che hanno inteso rappresentare ricorrendo non solo al flusso irregolare del pensiero e delle sue capacità associative, ma anche alla prepotenza invasiva e disturbante della metafora.

Mi azzardo a dire che qualcosa di analogo – cinematograficamente parlando - è stato fatto anche da Delvaux (ovviamente non da solo perché altri hanno contribuito con altrettanta forza e anche maggiore incidenza su quello che è venuto dopo) –  proprio grazie alla sua straripante voglia (una necessità davvero pressante) di creare un cinema liberamente "nuovo", finalmente fuori da ogni schema, moderno e altamente problematico, che tenta e sperimenta inedite vie aperte sul futuro, e che proprio per questo suo essere in costante movimento, farà storia inventando una sintassi inedita (ricordiamo che siamo "soltanto" a metà degli anni '60 e che dopo Welles, è proprio in quel periodo che forse si concretizza e si mette in opera la definitiva rottura formale e strutturale che taglia i ponti col passato e una tradizione più lineare di racconto, una “rivoluzione” che si propaga nell’aria e si propaga a macchia d’olio, che proprio qualche anno prima (oltre alle varie “correnti”), ha visto fra gli altri, posizionati proprio in prima linea a lavorare alacremente a questo  rinnovamento,artisti  del calibro di Resnais (grazie al quale si è raggiunta e rappresentata la fusione di tempi e luoghi diversi in un assemblaggio mnemonico del ricordo che gradualmente riemerge per frammenti ed “assonanze”) e di Fellini che con aggiunge anche la sincretizzazione dei sogni con il trasferimento visivo dei pensieri che li interseca, delle aspirazioni e dei fulminei bisogni del momento che si sviluppa in una costruzione narrativa non solo molto diversa, ma anche più empatica poiché  elimina ogni barriera di riconoscibilità oggettiva delle varie dimensioni, e che per questo si differenzia e si distacca dal semplice flash-back fino a quel momento utilizzato.

Delvaux era insomma in buona compagnia, e non è solo la solida importanza di quest’opera a dimostrarlo (dove ancora magari qualcosa è solo intuibile, in formazione, e non si trova espressa fino in fondo), ma il percorso è già tutto tracciato (non va dimenticato che questo è il suo esordio nel lungometraggio) e i semi ben piantati, pronti a sbocciare e dare poi i suoi frutti più maturi con tutto ciò che ha realizzato dopo.

 

Tratto da un romanzo di Johan  Daisne (sceneggiato dello stesso Delvaux e da Anna De Pater), il film  è la storia dell'avvocato Govert Miereveld, "scrutata" e letta attraverso tre momenti cruciali della sua vita.

La vicenda è comunque ricostruibile (nel suo significato e nel suo concatenarsi) solo a posteriori  (e quindi a visione terminata) e questo grazie all’uso di una inusuale tecnica narrativa capace di ingenerare continuamente il dubbio che mette in discussione l’effettivo grado di verità delle cose e che per tale sua specifica peculiarità, potrebbe essere davvero considerata il lontano embrione che anticipa di molti anni un’idea di cinema che poi Lynch  porterà magnificamente a compimento, ma che già qui si dimostra di straordinaria rilevanza. Anche ne L'uomo dal cranio rasato insomma, lo spaesamento che si avverte è profondo e disturbante nel suo guardare e rapportarsi ai fatti ed alle circostanze sempre da differenti e spesso opposti punti di vista, che indagano, mostrano (e qualche volta anche negano) quello che abbiamo creduto di vedere (e di capire) in precedenza.

L’insolita modalità espositiva del regista, diventerà ancor più sperimentale e compiuta nella sua successiva fatica: Una sera… un treno (Un soir, un  train / De trein der traagheid)che è del 1968 e dove il protagonista, sopravvissuto alla sua compagna in un disastro ferroviario, si trova a rivivere i frammenti di una difficile storia d’amore nella cornice rarefatta dell’incubo (due opere  per più di una ragione quasi complementari nelle quali, con una lucidità davvero impressionante, il regista riesce a cogliere e riannodare l’inquietante complessità intellettuale dei drammi che sta mettendo in scena).

 

Come ho già detto, il protagonista de L’uomo dal cranio rasato (che narra in prima persona la sua storia), è colto in tre momenti della sua esistenza che sembrano lontani anche nel tempo.
Nel primo, apprendiamo che Govert (un avvocato che non è riuscito a emergere dall’anonimato e che è diventato un piccolo insegnante di provincia in un Istituto femminile) si è perdutamente innamorato di una sua ex allieva, Fran, per la quale nutre una profonda passione che non ha mai avuto il coraggio di dichiarare alla ragazza. Quasi un'ossessione la sua che gli crea davvero molta sofferenza, vissuta nell'ombra e pregnata dal terrore che il futuro gli tolga anche la possibilità di poter per lo meno continuare a vedere la sua allieva, una volta terminato il periodo degli studi.
Nel secondo flash, ritroviamo Govert qualche anno dopo diventato finalmente cancelliere del Tribunale della sua città. Lo incontriamo nel piccolo cimitero di un paese vicino dove  ha accompagnato controvoglia un medico legale suo amico che deve eseguire l’autopsia di un cadavere. Govert sembra particolarmente turbato dalla cosa e segue infatti con estrema repulsione tutte le operazioni di quella pratica che sembra disgustarlo. Nell’albergo dove pernotta, l’uomo ritroverà casualmente Fran che è diventata nel frattempo una celebre cantante lirica ed è a sua volta lì perché impegnata in un teatro per una performances musicale. Questa volta l’uomo riesce finalmente a dichiararle il suo amore. Si incontrano nella camera di lei e Fran gli mostra alcuni oggetti, che sono altrettanti ricordi dei numerosi uomini che l’anno amata nel corso di una vita che si dimostra particolarmente burrascosa. In particolare, la donna – che si dichiara totalmente insoddisfatta della sua vita - gli confessa di essere stata l'amante del suo predecessore nella scuola, e ammette anche di aver capito da sempre l'esistenza della passione nutrita da Govert nei suoi confronti. Tutto si tinge così di un'aura  perversamente disperata e quasi assurda, decisamente tragica nel momento in cui Fran chiede a Govert di compiere un gesto estremo che la liberi dai pesanti sensi di colpa che porta sulle spalle.

L’uomo impugna allora una pistola e…..

Nell'episodio finale (il terzo) quello che finisce davvero per scompigliare le carte e spingere definitivamente il tutto su un piano indecifrabile che non consente più di capire davvero cos’è reale e cosa invece è uscito dalla mente alterata del protagonista, troviamo di nuovo Govert ricoverato in una casa di riposo (ma che potrebbe essere benissimo anche una clinica psichiatrica, e forse è proprio  questo il suo aspetto reale e non “mediato”), dove si trova ad assistere alla proiezione di un cinegiornale nel quale improvvisamente vede Fran ancora viva sullo schermo... nessuna spiegazione logica però poichè tutte le domande (e questo è il lato più suggestivo dell'opera) restano sospese, anche se il direttore dell’istituto prova a rassicurarlo, ma con una risposta ermeticamente ambigua: il cinegiornale è recente? Fran è stata veramente uccisa o è invece ancora viva?...


I due piani sui quali è imperniato il film, l'uno reale (appunto) e l'altro più fantastico (frutto di una psicologia malata?) sono sempre e comunque ambivalenti: fin dall'inizio infatti (e non solo quindi nell'episodio finale) si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un abile gioco portato avanti dal regista con grande maestria che mette a dura prova lo spettatore, impossibilitato a districarsi nella ragnatela  sfuggente di una costruzione piena di suggestivi "slittamenti". La peculiarità dell’opera  consiste poi nel mostrarci l’evolversi del racconto, ma interamente “narrato” dal protagonista, e quindi attraverso le modificazioni interiori dei pensieri di Govert.

Il risultato (estremamente affascinante) è ottenuto da Delvaux senza far ricorso ad alcun espediente o trucco tecnico, ma esclusivamente con il rigido e meticoloso utilizzo dei materiali espressivi adoperati in maniera davvero esemplare.
In alcune sequenze (e in particolare in quella dell'autopsia nel cimitero che ricorda molto Buñuel) il film sfiora il grottesco; in altre invece la macchina da presa assiste impassibile, quasi senza alcuna partecipazione "attiva", alle vicende del protagonista (le documenta e basta insomma), limitandosi a registrarle con occhio quasi impersonale ma tagliente come un  bisturi, puntando soprattutto ad evidenziare i rapporti di Govert con gli oggetti e le persone con le quali si trova ad interagire, una modalità che sembra rifarsi  ai dettati e all'insegnamento della corrente letteraria dell'école du regard.

L’opera (una profonda riflessione sul rapporto fra realtà ed immaginazione, follia e normalità, come si è già visto), pur facendo progressivamente emergere il fantastico dal quotidiano che trasfigura in sogno (o forse in incubo) una vicenda ricostruita con cura minuziosa dei particolari, ha una struttura espositiva decisamente rigorosa e un linguaggio lessicale che si sviluppa  soprattutto attraverso frequenti macro-sequenze narrative molto articolate. L'uomo dal cranio rasato si pone di conseguenza anche a livello ritmico (oltre che figurativo) come un raffinatissimo esercizio di stile, pieno di colte suggestioni nel quale Delvaux recupera (e immette) gran parte dei riferimenti visivi direttamente mutuati dalla pittura fiamminga (splendida la fotografia di Ghislain Cloquet e Roland Delcour). Da segnalare ancora al suo attivo la colonna sonora efficace e intensa di Freddy Devreese, l’ottima prova dei due interpreti principali e il suggestivo montaggio affidato alle sapienti mani di Suzanne Baron e R. Delferrière.
Pochissimo conosciuto qui in Italia è un film che meriterebbe un ripescaggio anche per  valutare al meglio l'opera di questo straordinario autore che ha solo il torto di aver operato in anni in cui era molto difficile recuperare  e vedere ciò che non veniva importato ufficialmente per la programmazione in sala o passava dai festival (e sappiamo quante pericolose falle ha lasciato aperto il nostro fatiscente sistema distributivo che l'era di internet ha solo in parte ricomposto)

 

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André Delvaux , dopo essersi  occupato per alcuni anni di cinema come teorico, fu chiamato a realizzare per incarico del Ministero dell’Educazione del Belgio, una serie di documentari didattici tra i quali Les temps des écoliers /Haagschool - Il tempo degli scolari,1962 che il regista costruì utilizzando anche attori professionisti (e quindi con una specie di ibridazione dei generi). Subito dopo questa esperienza più pedagogica, iniziò a collaborare con la televisione fiamminga pere la quale curò la messa in onda di una serie di trasmissioni che analizzavano alcuni aspetti del cinema contemporaneo. L’uomo dal cranio rasato è stato il suo primo lungometraggio a soggetto.

 

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