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La cage dorée

Regia di Ruben Alves vedi scheda film

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La recensione su La cage dorée

di OGM
6 stelle

La gabbia dorata è una portineria. È il locale più piccolo e più modesto di un lussuoso stabile situato nel centro di Parigi. È la casa di Maria Ribeiro, che lì vive con il marito José e i due figli, Paula e Pedro. Non è un caso se è una donna portoghese a svolgere quella mansione. I suoi connazionali, in Francia, sono spesso immaginati come custodi di palazzi. Si tratta di un cliché molto diffuso, di cui i Ribeiro, in cuor loro, soffrono non poco. Eppure non si ribellano, né a quel luogo comune, né alla subalternità a cui sono condannati, lui come operaio tuttofare, lei come lavandaia, stiratrice, giardiniera, addetta alle pulizie. Maria e José sono schiavi docili, così amabili e disponibili che paiono svolgere quel ruolo di buon grado, per la gioia di chi li sfrutta (secondo il detto trop bon, trop con). Il problema è reale ed evidente, ma i diretti interessati se ne rendono pienamente conto solo nel momento in cui, in conseguenza di una grossa eredità in beni immobili ricevuta dall’uomo, la famiglia si prepara a tornare in patria. Non appena la voce dell’imminente partenza si sparge tra i parenti ed i datori di lavoro, tutti si mettono in allarme, ed escogitano vari stratagemmi per impedire ai loro  fedeli servitori di abbandonarli. Da allora in avanti, si fronteggeranno due opposti egoismi, di cui uno più debole, e l’altro più forte, perché dotato di soldi e di autorità, e dunque di tutti gli strumenti utili a praticare il ricatto e a proporre lusinghe. I Ribeiro tarderanno a scoprire il complotto, ed intanto permarranno nella loro condizione di inferiorità, sulla quale gli altri faranno abilmente leva per rilegarli ancora più saldamente a sé. La sceneggiatura, che in principio si direbbe nettamente incentrata su questo inusuale risvolto della mancata integrazione, tende poi a deviare verso la consueta comicità delle incomprensioni culturali e dei dislivelli sociali. Ad un certo punto il povero si mette a sperimentare il lusso,si veste elegante e usa maniere affettate per non sfigurare, mentre il ricco assume pose anticonvenzionali e progressiste per mostrarsi privo di preconcetti ed aperto alla solidarietà. In quel momento il complesso  di inadeguatezza diventa di fatto un fenomeno bilaterale, figlio di un gioco delle parti da farsa di costume, che risulta sostanzialmente estraneo all’argomento principale. La temporanea divagazione non è apportatrice di particolare divertimento, perché le trovate sono decisamente logore nella concezione e piuttosto opache nella messa in scena.  Quello che, nelle intenzioni del regista e coautore Ruben Alves, nasce come un tenero tributo alla nostalgia del migrante, si lascia ben presto travolgere dal gusto dell’equivoco imbarazzante, della bugia smascherata, dell’imbroglio che finisce in una bolla di sapone: un minestrone di gag senza storia e con scarso carattere, che servono soltanto a pilotare  la storia verso il preannunciato, festoso happy ending.  Nel frattempo anche il desiderio di vendetta e l’ansia di rivalsa si riducono a sordi scoppiettii di fondo, mentre il racconto naviga tranquillo nel mare appena ondulato della commedia familiare, in cui non si ride e non si piange mai sul serio. D’altro canto, si sa, tutto è bene quel che finisce bene, e quindi non si parli più di partire o restare, di farsi rispettare o fare finta di niente. Peccato, però, per quel dilemma esistenziale da gente del popolo, e dal retrogusto amaro e piccante,  di cui, strada facendo, abbiamo perso le tracce.  

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