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Questa è la mia vita

Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film

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La recensione su Questa è la mia vita

di Azrael
8 stelle

Prima inquadratura: triplice primo piano femminile, laterale da entrambi i lati e poi frontale. Come per chiarire immediatamente l'oggetto della materia filmica, quasi fosse un reportage. 

Il personaggio di Nana è ordinario, privo di un background definito, si muove ed è alla ricerca di un senso o di una compiutezza personale. Una storia semplice, banale, ma un potente ritratto di quotidianità.

Se Michel Poiccard era un eroe assurdo, un archetipo vivente che forse nella vita reale non esiste, Nana è molto più vera, per questo rende possibile una relazione diretta con lo spettatore. Il tema sociale del film rafforza questo legame. 

 

Il titolo del film riprende il motivo centrale di gran parte del cinema di Godard con assoluta schiettezza. "Questa è la mia vita" (la mia vita da vivere in lingua originale), ovvero: questo è il personaggio, l'individuo che si andrà ad indagare, del quale si metterà in scena uno sprazzo della sua esistenza. 

La grandezza del film sta nel mantenere questi aspetti tipicamente esistenzialisti in abile equilibrio con un'aspra denuncia sociale sul tema della prostituzione. Il freddo elenco delle "regole del mestiere" è un coltello tagliente allo spettatore, reso ancora più efficace in virtù di un abile distacco consapevole. Godard esplora quindi un nuovo modo di affrontare il sociale, in linea con le regole da lui imposte nella Nouvelle vague.  

 

La narrazione di Godard parte rigorosamente dal soggetto individuale, che è quindi imprescindibile. Questo partire dall'individuo mette in luce in primis un substrato di matrice esistenziale nel senso più puro del termine (ci troviamo negli anni Sessanta a Parigi, e Godard è amico di Sartre), ed è anche funzionale ai costrutti stilistici fondamentali della Nouvelle vague. 

Godard esplora il quotidiano dall'esterno, in terza persona e dal di fuori. Un fuori che si traduce direttamente negli occhi dello spettatore che guarda il film, effettivamente "dall'esterno". 

Il quotidiano messo in scena è una parabola minimalista di gesti, inquadrature fuori campo, sguardi alla camera, dialoghi senza contesto, eppure così veri, reali e vissuti. I personaggi sono sentiti e percepiti fino in fondo dallo spettatore. Ed è questa la forza espressiva della Nouvelle vague, che in questo film trova uno degli esempi più cristallini e lampanti dei propri stilemi. 

 

Pochi minuti dopo la prima scena, il pubblico viene forzato in una posizione di osservatore mentre viene mostrata una conversazione in corso senza alcun contesto. Nana sta discutendo con il marito/amante. Nana è solo debolmente visibile sullo sfondo dal riflesso di uno specchio. La telecamera forza lo spettatore a fissare questa donna riservata fino a quando, dopo quasi due minuti, finalmente si sposta sull'altro soggetto, l'uomo. La conversazione continua e diventa chiaro la volontà di lei di abbandonare questa vita per un'altra più affine ai suoi desideri, eppure il pubblico continua ad osservare la scena da dietro, da una posizione di osservatore neutro, come presente nel locale. 

Un'altra conversazione, un locale simile al primo. Nana parla con un fotografo che dovrebbe aiutarla a farla conoscere all'industria cinematografica. La prospettiva dello spettatore è simile alla precedente, ma l'inquadratura è più distante e laterale. In questo dialogo la telecamera segue alternandosi le due persone, senza un solo taglio nell'intera scena. 

Più avanti, la conversazione tra Nana e il suo futuro magnaccia Raoul. Inquadratura di campo lungo mentre la testa di Raoul oscura quella di Nana, le cui reazioni saranno rivelate da stacchi di camera a sinistra e a destra. Negli incontri con Raoul spesso il volto dell'uomo non è visibile, come per sottolineare lqa menzogna dietro le sue parole. La sua presenza spesso oscura quella di Nana, oscurandola quindi anche allo spettatore. Questi eliminare la distanza, il contatto diretto tra Nana e il pubblico lascia presagire come quest'uomo rappresenterà la fine di Nana. 

L'estrema stilizzazione degli eventi messi in scena in questo modo è una sorta di verismo metafisico. I soggetti nei dialoghi vengono ripresi di spalle, di lato, il primo piano è talvolta abusato o del tutto rinunciato, i movimenti di macchina sforano le formalità consolidate districandosi tra zoom improvvisi, inquadrature che comunque si sviluppano in maniera rigorosamente anticonvenzionale. Si assiste ad una rivoluzione del linguaggio in atto. 

 

Godard mette in scena la realtà così come essa ci appare, per come noi individui la percepiamo nel vivere quotidiano. Se nel capolavoro godardiano Fino all'ultimo respiro questo concetto viene portato alla massima espressione (fondando, di fatto, il cinema moderno), in Questa è la mia vita Godard mette questa reinvenzione del linguaggio al servizio di una lucida indagine sociale. 

Se la Nouvelle vague di Godard è un realismo oltre il realismo, fondato sulla percezione, si vuole inquadrare la denuncia sociale quale aspetto del vero, di quel substrato di realtà che appartiene al vissuto di ognuno di noi e di conseguenza non può e non deve lasciare indifferenti. In questi senso, gli sguardi di Anna Karina rivolti direttamente allo spettatore lo rendono a tutti gli effetti complice, ponendo il ruolo del cinema come un racconto del reale che parla dell'individuo all'individuo. In Questa è la mia vita Godard punta il dito allo spettatore, lasciando ad esso la formazione di un proprio giudizio. 

 

Nel film, come già accennato, tutto è stilizzato all'eccesso. Si tratta di un minimalismo consapevole, contemporaneo a Bresson e figlio di Dreyer. La struttura in capitoli è funzionale a questo fattore, i titoletti sono degli schizzi della psiche, parole in fila e senza connessioni che forse riflettono il divenire della coscienza nell'agire quotidiano. Le scene sono anch'esse sconnesse sul piano temporale, con stacchi di montaggio netti tra l'una e l'altra. 

Questa metafisica del quotidiano si pone come fine una ricerca più autentica della realtà, una fenomenologia della percezione (per dirla alla Merleau-Ponty).

La scena della proiezione de La passione di Giovanna d'Arco al cinema riflette anche il travaglio personale di Nana, che culminerà ugualmente nella morte. Ciò che nel film viene messo in scena è prima di tutto una vita in veloce e progressivo scatafascio. Una caduta affrontata però fino in fondo e senza paura, con la massima dignità e spirito di responsabilità (figura accomunabile al Bellmondo di Fino all'ultimo respiro). Anche Nana, seppur vittima succube della società che la circonda, è un individuo pienamente libero nell'agire. 

 

Credo invece che siamo sempre responsabili delle nostre azioni. E liberi. 

Alzo la mano, sono responsabile. 

Fumo una sigaretta, sono responsabile. 

Sono infelice, sono responsabile. 

 

Altro punto focale del film, che, secondo alcuni pareri, lo trasforma in una pesante lezione universitaria di filosofia del linguaggio (ma sta tutto, in realtà, nel gioco consapevole di Godard), è quello sul finale del lungo dialogo tra Nana e lo sconosciuto dentro un locale (lo sconosciuto è interpretato dal filosofo del linguaggio Parrain).

Per Godard il cinema stesso è prima di tutto una forma di linguaggio, alla ricerca dell'autenticità delle sensazioni e del quotidiano. Ci si interroga sul mutismo, l'assenza di parole, quale modo più efficace in questa ricerca. Qui la frecciatina è rivolta al cinema tradizionale, specie di intrattenimento, che appesantisce questa ricerca del vero nell'immediato divenire dell'esistere quotidiano, nel farsi di esso di sensazione in sensazione. Questa percezione primigenia, per come effettivamente avviene e viene percepita, è il fulcro della ricerca di Godard e di gran parte del suo cinema.

Il dialogo tra Nana e Parrain è una delle esplicazioni più lucide e consapevoli sul cinema di Godard, ed è effettivamente una lezione sul suo cinema all'interno del film. 

 

La parentesi sul linguaggio viene ripresa anche successivamente, con la scena della lettura del racconto di E. A. Poe Il ritratto ovale. Come nel caso della Giovanna d'Arco sullo schermo del cinema, si tratta di un altro ritratto della situazione che sta vivendo Nana all'interno del film. Durante la lettura l'inquadratura è infatti fissa su Nana, che diviene quindi anch'essa un riflesso vivente della protagonista del racconto di Poe. 

La letteratura è un'altra forma di linguaggio, come il cinema, e si offre anch'essa come strumento per narrare la realtà e rifletterla. Le forme del linguaggio si amalgamano, si fondono tra loro quali mezzi espressivi per mostrare la stessa realtà. Godard sonda le possibilità infinite del linguaggio. 

 

Nana tenterà di ribellarsi, ma la realtà esterna è troppo forte e glielo impedisce. Nana muore. 

La scena finale del film, distaccata e veloce, rappresenta il culmine di tutti i concetti precedentemente espressi. Il rifiuto (consapevole) di emotività e di qualsivoglia accezione morale, si rivolge però verso l'esterno. Il compito di giudicare (o di non farlo) viene lasciato allo spettatore, il quale è quindi presente non in funzione della storia ma unicamente come spettatore di essa. 

In questo senso lo spettatore in Godard ha un ruolo che non è semplicemente passivo, ma fortemente attivo. 

 

Di fronte allo sgargiante luccichio plasticato di Hollywood, Godard torna ad un cinema dal forte carattere sociale, che mette in scena l'esistenza per come essa si da nel suo movimento e nel suo divenire. 

La realtà nel suo farsi realtà, caratterizzata dalla contingenza e dalla indeterminatezza dove la responsabilità individuale ha un ruolo fondamentale. Il cinema come arte del movimento si presta alla rsppresentazione di questo divenire incessante che è la vita umana. 

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