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Il passato

Regia di Asghar Farhadi vedi scheda film

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La recensione su Il passato

di ROTOTOM
8 stelle

Ahmad (Ali Assafa) rientra a Parigi dall’Iran dopo quattro anni per accettare la domanda di divorzio della moglie Marie (Bérénice Bejo). Marie con al fianco il nuovo compagno (Tahar Rahim)  ha un rapporto conflittuale con la figlia Lucie. Le tensioni dovute all’arrivo di Ahmad fanno ritornare a galla un passato misterioso, nel quale una donna ha tentato il suicidio e che si trova in coma permanente. Forse per colpa di uno di loro.

In una Parigi multietnica, brulicante, lontano dallo stereotipo turistico, il passato zampilla nelle crepe delle vite dei personaggi alimentando tensioni, scontri e riconciliazioni in una magnifica rappresentazione della natura umana, sanguigna  e vera.



Il passato non è solo una concezione temporale, è piuttosto la materializzazione delle scelte di ogni singola persona che combinata con tutte le altre, concretizza nel presente le sue conseguenze, anch’esse passate nel momento stesso in cui si palesano. La narrazione incombente e densa non lascia scampo alla tumultuosa avanzata della vita che non è altro che un fitto, complesso e a volte incomprensibile reticolo di scelte che si intrecciano alla vita delle altre persone. Che siano azioni, parole, gesti, espressioni, silenzi non fa differenza, il passato scrive la storia e la incide nel tempo senza poter essere cancellata e ogni volta , ogni secondo, è una nuova ripartenza verso un futuro che si tende più a consumare tentando di dare una spiegazione al passato che a vivere cercando di non avere rimorsi.



Ecco quindi che Asghar Farhadi imposta il film, straordinario, mettendo in scena la commedia (o dramma) della vita , sfaccettata in ogni sua componente emotiva e strutturandolo per scene madri, ognuna delle quali alla fine arriva a contraddire quella precedente o a dare altra luce alla vicenda, in un crescendo appassionante fino alla fine dove tutto si chiarisce. Il respiro di sollievo, benché il finale sia tutt’altro che conciliatorio, è lo stesso che si avverte alla fine di qualsiasi thriller e proprio dal thriller , Farhadi si rifà per creare tensione.



Nodo alla gola

Dramma hitchockiano di interni con squarci all’esterno, le finestre sui cortili; drammi intimi che diventano universali quando rapportati al tipo di società che viene presa in considerazione.

E’ straordinaria la capacità di Fahradi di insinuare elementi tipici del genere noir/mistery – chi ha fatto cosa – nella quotidianità di  eventi che sono per loro natura lontani dal genere ma che sono presenti nel melting pot di culture che si sfiorano e cercano di comprendersi.   

Un continuo avvicinamento e allontanamento che provoca vuoti, colmati dalla forza interiore, dall’esigenza di equilibrio. Ecco che il passato del titolo non è solo scelta ma condizione culturale e storia personale di ogni interprete del dramma. E’ qualcosa che è insito nella natura umana e che è tramandato di anima in anima senza che sia possibile estirparla.  Immigrati di seconda e terza generazione che si sono costruiti un futuro e immigrati che di futuro non ne hanno. La crisi economica e il lavoro nero, sommerso, degli sfruttati dagli stessi immigrati ormai liberati da qualsiasi sentimento di solidarietà.



 Ferite che provocano ferite, scelte che causano conseguenze irreparabili in una rappresentazione del destino mai come in questo caso svuotata di fato e compresa nelle sue micro cause, atomizzate in ogni singolo gesto di ogni singolo attore.

Una tensione continua alimenta le vicende della famiglia allargata di Ahmad , qualcosa di incombente aleggia sulla vita dei personaggi che sono sempre a un fiato dallo scontro, sempre però cercano il compromesso in una caricatura della normalità e della ragione, bizzarra, forzata che tuttavia risulta essere l’unico modo per ricomporre l’unità famigliare.
La famiglia è infatti il centro attorno il quale si muove la storia, disfatta e ricomposta, discussa, negata ma in ogni caso amata e  difesa.  Famiglia che è come nell’altrettanto bellissimo film vincitore alla Berlinale e premio  Oscar Una separazione (2011) la cellula base della società e come la società stessa, si disgrega . Il tentativo di tenerla unita nonostante tutto da parte di Ahmad è il tentativo di affrancarsi dal disastro di una società mostruosa e cinica che trova proprio nella disgregazione emotiva e affettiva il senso del suo dominio incontrastato sulla vita delle persone, condizionandola pesantemente. 

Quando il mistero si svela, i piccoli grandi segreti vengono risolti, i rancori anestetizzati, si ha la sensazione di uscire da un incubo in cui il nodo alla gola si scioglie e si ha la certezza che solo con le parole, quelle che Ahmad rovescia con pazienza e determinazione sull’umorale Marie e il duro compagno di lei, si possano risolvere i problemi.

Parole , cultura , capacità di ascoltare e capire. Da Fahradi viene una lezione di umanità magistrale, dove proprio il mistero del suicidio della donna, spirito errante che scatena il dramma famigliare è causato dall’ambiguità delle parole e dal loro peso, dall’essere interpretate in modo distorto o proprio non capite il tutto affogato in un clima di costante paura. La paura di non essere compresi.

Straordinari gli attori, meno il doppiaggio, in modo particolare la voce doppiata di Ahmed non convince proprio. Questo film, strutturato proprio sul linguaggio come perno su cui la vicenda si scioglie, necessita assolutamente della visione in lingua originale. 

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