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Il passato

Regia di Asghar Farhadi vedi scheda film

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La recensione su Il passato

di EightAndHalf
4 stelle

Ci vorrebbe un mese per spiegare il nuovo film di Ashgar Farhadi. Si fa prima, paradossalmente, a vedere il film, nonostante le sue estenuanti due ore e dieci. Il discorso verterebbe su tutte le dinamiche umane e psicosociali che muovono ogni singolo personaggi del microcosmo famiglia, che è diventato macrocosmo fra divorzi, fidanzamenti, elementi continui di estraneità.
Lui, lei, l'altro, anche se quest'"altro" è assolutamente intercambiabile. Passa da Ahmad a Samir, i due protagoniti maschili, con la velocità e la sveltezza di un topo sfuggente, che scappa qui e lì fra una credenza e un'altra però seguendo una traiettoria che noi potremo capire, che saremo costretti a capire. E infatti anche se sarebbe meglio che rimanesse il dubbio, nella trama di Il passato ci viene spiegata un'infinita quantità di perché. Perché questo, perché quello?, il desiderio assolutamente ridondante e superfluo dell'essere umano non sembra limitato alle equilibrate debolezze dei personaggi (in cui vizi e virtù sono equamente divisi, come nella più ricostruita elaborazione sociologica), sembra estendersi allo sguardo del regista che in uno spaccato psicosociale talmente complesso e talmente reale da effettivamente estenuare, cerca di bissare il premio Oscar Una separazione aggiungendo moltissima altra carne al fuoco, dall'idea della famiglia composta fino alle elaborazioni di un semi-lutto di una donna ancora rimasta in coma. Si fatica ad arrivare alla fine del film di Farhadi non perché sia noioso né perché risulti fin troppo poco confortante: il problema è l'approccio di Farhadi, talmente razionale, da "lente di ingrandimento", che svuota di ogni partecipazione emotiva gli spettatori ancora più dei personaggi, che urlano, si arrabbiano o cercano di mantenere la calma mentre lo spettatore cerca di destreggiarsi fra continui colpi di scena che riducono drammaticamente le possibilità di empatia. Si potrebbe parlare di urgenza stilistica, ma l'idea che ci si fa è proprio che Farhadi non mantenga la calma, la manifesti attraverso il suo linguaggio naturalistico alla maniera ottocentesca, ovvero razionalizzando come un logico indagatore - per cui ogni singolo personaggio agisce secondo un motivo comprensibile e non c'è margine per l'irrazionalità umana -, ma la storia si spiaccica davanti alla nostra attenzione (che anch'essa si fa lente di ingrandimento su questi piccoli topini-esseri umani che cercano risposte e svelano verità su verità) ostentando un ordine (crono)logico perfetto, ripulitissimo e, per questo, infinitamente stancante. 
Il passato è una condizione temporale che colpisce ogni singolo personaggio della trama: tutto è avvenuto nel passato e tutti quanti i caratteri, che scavarli più di così, dal punto di vista psicologico, non si può, sono combattuti, tengono un piede da un lato del ruscello e l'altro dall'altro lato, ma il ruscello si allarga sempre di più, e loro non vogliono mollare. Ognuno convinto della propria tesi riguardante le cause di un suicidio per ingestione di detergente di una donna in una lavanderia, tutti i nostri eroi allargano sempre di più le gambe mentre il ruscello del tempo passa sotto di loro, e cominciano ad indagare facendosi domande, tentando di andare oltre tutta l'acqua passata e di sbloccare tutte quelle antipatie reciproche che li condizionano. Così Ahmad si ritrova in conflitto, da un lato vorrebbe tornare a Teheran e dall'altro vuole rivedere l'ex-moglie con cui deve firmare le definitive carte del divorzio (il divorzio è sempre causa dei mali più caotici, nei film del regista iraniano); così Marianne è colpita da un dubbio esistenziale, se perseguire le volontà della figlia oppure coronare un suo sogno d'amore che in passato non ha fatto altro che procurarle delusioni; così Samir (Un prophet, ma qui i suoi problemi sono solo il passato e il presente) è diviso fra il rispetto di una moglie in coma e il nuovo affetto nei confronti di Bérénice Bejo (in mise assai éuropeanne dopo i capelli corti di The Artist, che sembra rievocato da una lampada che si vede più e più volte nella cucina della loro casa). Allo stesso modo i due lati del ruscello si distanziano sempre di più su direzioni tutte parallele anche all'interno di una dimensione familiare al limite del paradosso, in cui l'istituzione che più è difesa in tempi tanto bui si ritrova involontariamente sconvolta da dinamiche coniugali ed extra-coniugali che più complicate non si potrebbe (ma non è certo l'inverosimiglianza il problema de Il passato). E in tutto questo la presenza opprimente ma non visibile della moglie in coma, che se ne sta con la sua depressione nelle parole e nei dialoghi fra i vari personaggi, è incarnazione della natura astratta ma invadente proprio del passato (prossimo, non remoto), che fa tentennare tutti i personaggi e li pone tutti davanti a più bivii di strade che fra loro poi si incrociano. Però c'è un architetto, alla base di tutto, che nella sceneggiatura tradisce spesso la natura maligna della sua analisi sociologica curandosi sempre di spiegare il singolo movimento del singolo personaggio in quella singola data circostanza, tanto che la storia diventa un giallo senza scampo in cui c'è addirittura un solo colpevole, prevedibile com'era prevedibile l'assassino di Profondo rosso di Dario Argento. 
La vita diverrebbe così una sorta di thriller, un susseguirsi di scoperte nell'arco di pochi giorni che ci farebbe continuamente cambiare idea sulle nostre decisioni, quando Farhadi sa benissimo (e Una separazione lo dimostrava) che la forza che più muove l'uomo non è la razionalità, ma l'ostinazione, e qui di ostinato c'è soltanto il suo sguardo, estraneo alla vicenda così come si sentono estranei tutti i vari membri della famiglia (e lo sono, da un punto di vista biologico). Così i nostri sentimenti (profondi e superficiali) restano sopiti, estranei, perché non possiamo fare altro che rinnegare l'idea base del film, che tutto possa essere spiegato, che tutto sia effettivamente spiegato, che noi alla fine avremo un quadro di insieme. 
Il finale, di una delicatezza assai nervosa (dopo due ore spedite e velocissime ci dilunghiamo in un lunghissimo e contemplativo piano sequenza), non ha niente a che fare con Kieslowski o Dreyer, non c'è nessuna forza superiore all'uomo, mistica o religiosa che sia, ma la semplice fine di un cerchio (anzi, di una geometrica circonferenza) in cui abbiamo capito tutto e di dubbi ce ne rimangono troppo pochi.

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