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Foxcatcher - Una storia americana

Regia di Bennett Miller vedi scheda film

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La recensione su Foxcatcher - Una storia americana

di ed wood
8 stelle

Acclamato dalla critica, forse un poco oltre i suoi effettivi meriti, "Foxcatcher" appartiene a quel filone di cinema statunitense degli ultimi 15 anni che, pur senza eclatanti rivoluzioni formali e contenutistiche, ha saputo penetrare nei recessi più nascosti dell'American Dream, rinunciando alla tipica enfasi hollywoodiana in favore di un approccio più allusivo, fatto tutto di sottintesi e sguardi ambigui. Questa tipologia di cinema adulto, di cui forse il "Mystic River" di Clint Eastwood potrebbe costituire un modello, ma che coinvolge anche opere di registi meno blasonati, più o meno riuscite (rispettivamente, a mo' di esempio, "Monster's Ball" del mestierante Foster e "Nella valle di Elah" del sopravvalutato Haggis, ma l'elenco sarebbe molto più consistente e dispersivo), rifiuta la sottolineatura retorica, lo spiegazionismo, la tendenza a dare allo spettatore esattamente ciò che si aspetta, tutto ciò che ha afflitto il cinema statunitense mainstream negli ultimi lustri. Al contrario, il metodo prediletto è quello della sottrazione, del suggerimento, eventualmente della metafora. 

 
Come le opere succitate, anche il film di Miller cerca la via della "radiografia obliqua" degli USA, ossia: le basi ideologiche e culturali che fondano il pensiero a stelle e strisce non vengono prese di petto, ma studiate attraverso una sineddoche, una storia esemplare, un insieme di relazioni interpersonali in un dato contesto storico e un dato ambiente sociale. Il contesto è quello dell'America tardo-reaganiana, reduce dal trionfo (scontato, visto il boicottaggio dell'URSS) alle olimpiadi di Los Angeles del 1984; l'ambiente sociale racchiude invece la quintessenza del Sogno Americano, una sorta di patto interclassista fra la ricchissima borghesia discendente dai primi pionieri delle colonie orientali (la Pennsylvania) e il ceto popolare che trova nello sport l'unica speranza di successo e di riscatto sociale. Ad unire i due fronti, c'è la medesima ossessiva convinzione nei valori della nazione americana: sacrificio, allenamento, competizione esasperata per ottenere a tutti i costi una vittoria che significa, da un lato, l'imposizione del "campione" come modello da imitare rivolto a tutta la società americana, dall'altro un segnale al mondo intero della potenza e della intrinseca bontà e giustizia del valori americani.
 
L'impianto tematico non è nulla di originale: il rapporto (talvolta malato, quasi sempre strumentale) fra sport e potere (sia politico che economico) è una faccenda abbastanza nota. La relazione fra coach ed atleta, come quella speculare fra padrone e servo, si è già vista in tanto ottimo cinema USA contemporaneo, da "Million Dollar Baby" di Eastwood (ancora lui!) al recente "The Master" di Anderson. Anche gli altri nodi contenutistici rimandano ad archetipi già ampiamente sviscerati: la questione della criticità del legame fraterno (quanto sono diversi i due fratelli Schultz e quanto inversamente speculare è la loro parabola, esposta con un graduale ribaltamento di ruoli che ricorda la progressione di "Inseparabili" di Cronenberg), così come la ricerca di una figura paterna assente (a un certo punto del film, Mark afferma esplicitamente che Du Pont per lui è stato il padre che non ha mai avuto) e il senso di frustrazione di un figlio nei confronti di una madre che non lo ha mai amato (fa quasi pena vedere Du Pont, scapolo solitario e senza alcuna vicenda sentimentale in ballo, cercare inutilmente di conquistare l'approvazione di una madre che non gli ha mai perdonato la passione per la lotta libera).      
 
La sceneggiatura, quindi, ripropone una serie di conflitti che già si erano visti altrove, senza peraltro ribaltarne più di tanto la prospettiva. E' come se si fosse voluto cercare l'equilibrio assoluto fra le componenti, quando invece sarebbe stato più opportuno aver il coraggio di osare in una specifica direzione. Ad esempio, si poteva caricare maggiormente la parte politica del copione, dando più peso alla storia della famiglia Du Pont, mettendo più riferimenti a Reagan, andando alle radici del patriottismo di Mark e di Du Pont, delineando meglio il quadro storico, eccetera; oppure si poteva mettere l'accento sulla pratica della lotta libera, attività poco presente nel cinema, pur essendo lo sport più vecchio del mondo, praticato sin dai Greci: si sarebbe prestato ad una metafora della sopraffazione umana, ma la penna degli sceneggiatori si è fermata anche qui un po' troppo presto. Stesso discorso per la chiave omo-erotica, rimasta solo sulla carta. Probabilmente, si è trattato di una scelta voluta, per non alterare quel tono distaccato, neutro, quell'alone di mistero che fa di "Foxcatcher" una specie di thriller dell'anima. In questo modo però manca quella profondità di sguardo, che avrebbe elevato il film da solido e perverso dramma psico-patologico a potente metafora degli Stati Uniti.
 
Se il film può dirsi comunque valido, suggestivo e disturbante, gran parte del merito va alla regia, giustamente premiata a Cannes. Anzitutto Miller, anche grazie all'ottimo lavoro del direttore della fotografia, riesce ad imporre all'America di Reagan un tono lugubre e minaccioso, svilendo persino il magnifico foliage dell'autunno della Pennsylvania. E' una raffigurazione degli anni 80 che è parente stretta di quella cupa e triste ritratta dai tedeschi Petzold ed Henckel nei loro film sulla DDR. Si registra inoltre una notevole finezza del dirigere il triangolo attoriale (a proposito, casting azzeccato, inclusa la leggendaria Redgrave), nonchè l'ispirazione di alcune sequenze: le panoramiche sul paesaggio americano, con le tipiche case con la veranda e le immancabili bandiere; le immagini di repertorio sulla caccia alla volpe, testimoni di una "vecchia America" dai contorni inquietanti; la sequenza toccante della liberazione simbolica dei cavalli, dopo la scomparsa della signora Du Pont; quest'ultima che toglie disgustata lo sguardo dal figlio mentre questi si fa ribaltare da un lottatore in allenamento; la follia finale, assurda, inspiegabile, uno dei momenti più amari ed "ingiusti" del recente cinema USA.
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