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Nebraska

Regia di Alexander Payne vedi scheda film

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La recensione su Nebraska

di ed wood
8 stelle

Ci mette un po' a carburare questo nuovo road-movie dell'autore dei pregevoli, misurati, decontratti "About Schmidt" e "Sideways". Ma quando ingrana, regala momenti di assoluto spasso, bilanciati da sprazzi di amarezza come da prassi dell'ossimorica "commedia drammatica". Il regista sa bilanciare i toni come pochi altri: si è parlato di Lynch ("Straight Story") e Bogdanovich ("Paper Moon"), ma in verità questo film è Payne al 100%. Forse non entrerà nella Storia del cinema come un grande innovatore, ma i suoi umili film hanno senz'altro il pregio di aggiungere nuove, genuine, oneste figure nella galleria degli outsider della "America profonda" perlustrata da tanti cineasti USA. La provincia statunitense messa in scena da Payne è tutto fuorchè fascinosa. Non c'è più niente del mito dei grandi spazi, della strada, del viaggio verso una "frontiera" nelle immagini di questo film: nemmeno la tappa al Monte Rushmore riesce a ravvivare il Mito. E' un'America scialba, grigia, svuotata, dove i suoi simboli iconografici (i motel, le tavole calde, le birrerie, le villette) perdono la loro presenza plastica, mimetizzandosi nel pallore di una natura brulla. A contribuire a questo effetto, è la fotografia: un bianco e nero senza contrasti, perfetta eco allo smussamento di toni praticato dal regista nella direzione degli interpreti. E' un film che sa trattare il tema della vecchiaia (specie se aggravata dal terribile Alzheimer) con delicatezza ma senza buonismo, con rispettosa ironia. Inutile cercare, nei vuoti di memoria di Woody Grant (un Bruce Dern oltre ogni elogio possibile, in stato di grazia nel rendere con ogni parte del corpo le memomazioni psicofisiche della malattia) una metafora degli USA di oggi e del loro conflittuale rapporto col passato: lo sguardo di Payne è umanista, non politico. C'è verità in questa bizzarra storia di parenti imbarazzati, vecchi debiti e rancori, il miraggio onnipresente della ricchezza, ricordi di vecchie guerre ed amori, anziani alle prese col karaoke, adulti che tornano ragazzini per rubare un compressore, figli che imparano a conoscere sul serio i genitori. Niente di nuovo, sotto il sole (fioco) del road-movie, ma il disegno dei personaggi è raffinato, il taglio delle inquadrature aggraziato (come un Jarmusch un po' meno surreale), la regia brillantissima nei tempi, nelle pause, nelle mezze parole impacciate che regolano le conversazioni "di circostanza". Memorabili i discorsi sulle automobili coi due cugini, la sequenza del furto del compressore, il carrello conclusivo sulla città di Hawthorne: squarci di "vecchia America" che non muore, che non smette di inseguire una parvenza di Sogno, che tenta di scongiurare l'oblio del proprio immaginario.

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