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All Is Lost

Regia di J.C. Chandor vedi scheda film

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La recensione su All Is Lost

di scapigliato
10 stelle

Se qualcuno vi dovesse chiedere cos’è il cinema, ditegli di vedersi All is Lost. Se tutta la cultura occidentale, compresa quella angloamericana, si fonda sulla scoperta dell’Ovest – l’unico punto cardinale che nel Vecchio Mondo non esisteva e si vociferava fosse il paradiso terrestre – e ovviamente questa fondazione richiama anche l’ignoto, il fascino per la spedizione, il superamento di un limite umano e l’espressione maschile dell’avventura, quale mito migliore del viaggio e dell’uomo solitario nella wilderness per esemplificare, rappresentare e simbolizzare questa cultura?

All is Lost, che se vogliamo riattualizza il mito moderno di tale solitaria umanità nel mondo selvaggio, che è poi il Robinson di Defoe (1719), gioca tutte le sue carte anticommerciali, antidivistiche e sotto un certo aspetto popolare pure antinarrative e antispettacolari per vincere una sfida titanica regalandoci un film bellissimo che fa il paio con Into the Wild (2007) per spirito propulsore, per fascino avventuresco e incisività dell’attore protagonista.

A differenza del film di Sean Penn, quello di J. C. Chandor è ancora più radicale. Non ci sono altri personaggi all’infuori del protagonista e i dialoghi sono circoscritti alla lettura di una lettera a inizio film, a un tentativo di soccorso via radio e ad una breve serie di imprecazioni verso il finale della pellicola. Inoltre, l’unità di luogo, tempo e azione, seppur non perseguita puntualmente, è sicuramente incisiva per la resa emotiva di All Is Lost, mentre in Into the Wild il cambiamento degli scenari, la rassegna di personaggi collaterali – uno su tutti l’immenso Hal Holbroock – e lo trascorrere di un lungo periodo di due anni, ci danno una percezione diversa della storia e dell’emotività che ne consegue. Nel film di Chandor, invece, l’unità di luogo – la barca e per esteso lo sconfinato oceano –  ricorda il nostro piccolo mondo, tutto il nostro mondo che starebbe dentro una sacca e niente più. Anche l’azione, nelle sue varie declinazioni, resta sempre la stessa, la sopravvivenza e la lotta contro la furia degli elementi, mentre la temporalità della vicenda non è racchiusa in una unità definibile e limitata, ma si estende lungo l’arco di qualche giorno. Questo ci aiuta a focalizzare l’aspetto esistenziale della storia, la sopravvivenza e il confronto con la natura selvaggia e la minaccia della morte, e potergli dare un taglio altamente riflessivo proprio grazie allo scorrere del tempo.

Uno degli aspetti interessanti della pellicola, che ci ricordano l’occidentalità dell’operazione, che è poi l’americanità della storia, è l’impostazione iniziale del film. Tutto parte in media res con il Nostro Uomo che si sveglia dal suo sonno e deve subito fronteggiare il primo di una serie di pericoli e ostilità a cui andrà incontro. Questo incipit parte con un piano sequenza che ha in sottofondo le parole in voice off del protagonista. Parole che scriverà molto più avanti nella storia, quando appunto “tutto è perduto”, ma che ci vengono lette ora per darci una chiave di lettura anche se non forzata di tutta l’intera parabola. La particolarità di questo piano sequenza iniziale è la sua circolarità a simboleggiare il circolo armonico e naturale della vita.

 Nei 360 gradi inquadrati ci viene mostrato il piatto e sconfinato oceano, ma anche un enorme container rosso che al momento non riusciamo a decifrare, ma che in seguito intenderemo essere il deus ex machina al contrario dell’avventura naufraga del protagonista. Un monolite fuori posto che nella sua assurdità plausibile – più avanti nel film ci verrà data questa plausibilità – funge da coda del diavolo, da angelo della sventura, simbolo ed emblema dell’inizio della tragedia, dell’avventura, della discesa dantesca e quant’altro. Insomma quel container è Moby Dick. E qui il cerchio si chiude. Dal mito dell’uomo moderno nato con il Robinson di Defoe, inglese, arriviamo a chiudere il cerchio con l’Achab americano di Melville (1851), il cui monumentale romanzo è l’impostazione della nascente cultura americana.

Fondamentale la definizione del personaggio. Un personaggio di cui non sappiamo nulla. Non sappiamo né da dove viene né dove sia diretto, se stia scappando da qualcosa o solo raggiungendo qualcosa, se stia solo viaggiando per solitudine o cos’altro. Non ha un nome, non ha un passato, se non quel poco che possiamo credere e inventarci noi dalle parole che proferisce nel suo iniziale e breve monologo. Ha sì un’età, ma può essere un’età simbolica. Il senex sta al puer come l’avventura sta alla scoperta, alla sopravvivenza, al mistero dell’ignoto, al superamento dei propri limiti e alla sfida titanica con la natura immortale. L’anzianità palese del protagonista è infusa di spirito adolescenziale, ma anche della riflessività dell’età adulta. Senex e puer stanno quindi uno con l’altro senza escludersi.

Altro aspetto importante, strettamente ricollegato al mito del viaggio e del superamento di una frontiera, immaginaria come reale, è l’oceano in cui si trova disperso il Nostro Uomo: l’Oceano Indiano. Nella cultura americana, via Leslie Fiedler, sopravvive il pellerossa come doppia anima e coscienza rimossa dell’Homo Americanus in lotta con la colpa del suo passato sterminatore e la gratitudine verso una popolazione che nel suo amore per la natura, nella sua tensione alla vita selvaggia, nell’orgoglio maschile e nell’amicizia virile che da Fenimore Cooper in avanti attraversa la narrativa autoctona, ha posto le basi per l’americanità più vera e genuina, non quella nazionalista e di propaganda WASP. Non è un caso, quindi, che il nostro naufrago si sia perso dantescamente nell’Oceano Indiano, un territorio liquido in cui l’appellativo indiano è espressione di fusione e non di separazione. In oceano aperto tutto è piatto, minimale, basico, tutto è uguale, come avrebbero dovuto esserlo le razze e le etnie. Il rimosso quindi torna e tempra la solitudine del protagonista che inconsapevolmente, nella sua avventura selvaggia, torna ad essere “indiano”.

Se poi consideriamo il fatto che in questa sua ipotetica fuga, il Nostro Uomo si sta anche allontanando dalla femminilità – non ci sono foto di mogli o ricordi di donne amate – non possiamo non ricordarci di tutta quella narrativa americana che dal Rip Van Winkle (1819) di Washington Irving fino ad oggi, passando ovviamente da L’Ultimo dei Mohicani (1826) e da Huckleberry Finn (1884) e da tutto il western, racconta proprio la fuga dalla donna e l’incontro con il maschio selvaggio in questa raffigurazione di copula filosofica, esistenziale ed etica tra il nuovo americano e il nativo americano.

In All Is Lost non abbiamo altri personaggi, non c’è un selvaggio o un altro uomo con cui sia ipotizzabile questa tensione alla maschilità come totem dell’occidentalità – che Fiedler saggiamente chiama matrimonio tra maschi – ma la situazione, la solitudine, i riferimenti letterari – Robinson, Moby Dick, ma anche Il Vecchio e il Mare (1952) – le scelte narrative come quelle ambientali, ci aiutano a capire che di questo comunque si tratta: dell’uomo occidentale moderno in lotta con il suo passato colpevole, nel tentativo di raggiungere la verità di se stesso attraverso il monumento naturale.

Inoltre, senza doverlo spiegare, c’è il volto di Robert Redford. E il film prende tutto un altro sapore. Pochi sarebbero stati i volti adatti per un ruolo del genere. Penso a Harrison Ford e a quasi nessun’altro. Ho sempre voluto vedere Clint Eastwood regista e interprete unico de Il Vecchio e il Mare, ma ormai è solo un sogno. Anche Gene Hackman, nonostante l’età, poteva essere l’uomo giusto, come anche Nick Nolte. Avrei trovato fuori luogo un Robert De Niro, un Dustin Hoffman e un Al Pacino, così come Brad Pitt o Josh Brolin sarebbero risultati troppo giovani. Forse James Brolin, tra i seniors, e Sean Penn tra i meno giovani, potevano avere il volto e il background adatti. Ma credo che come Robert Redford non ci sarebbe stato nulla di meglio.

Impossibile non riconoscere nel suo celebre profilo il Jeremiah Johnson dell’omonimo film di Pollack del 1972 o il ribelle sciatore de Gli Spericolati (1969) al fianco e contro Gene Hackman, oppure lo spavaldo Sundance Kid di Butch Cassidy (1969) o gli idealisti protagonisti di Ucciderò Willie Kid (1969) e La Caccia (1966). Per non parlare degli ultimi vent’anni di carriera di cui il Nostro Uomo di All is Lost può ben essere un alter ego oppure proprio uno di quei personaggi redivivi. Potrebbe essere il Nathan Muir di Spy Game (2001) che dopo aver salvato Brad Pitt e aver fregato i colleghi della CIA se ne va in tutta sicurezza sulla sua corvette; oppure potrebbe essere l’indecente miliardario di Proposta Indecente (1993) che dopo una vita di lussi fugge da tutto, da una bancarotta o dal fisco; oppure potrebbe essere il Jim Grant di La Regola del Silenzio (2012) perennemente in fuga.

In un modo o nell’altro Robert Redfort porta in volto l’America sana e idealista – forse anche troppo – che si confronta regolarmente con il proprio passato, le proprie ferite e le proprie lacerazioni. Combattivo e combattente, il Redford di pellicole come I Tre Giorni del Condor (1975), Tutti gli Uomini del Presidente (1976) e Brubaker (1980) ritrova nel bel mezzo dell’Oceano Indiano il fervore per una storia apparentemente di sola avventura, ma che in realtà non tradisce i valori e i caratteri dei suoi ruoli precedenti.

Uno dei più grandi attori di sempre si mette in gioco in un film decisamente difficile. Il peso dell’inquadratura costantemente addosso e l’assenza di dialoghi e battute ad alleviare tale peso impongono all’attore di puntare tutto sul suo volto, la sua mimica, il suo corpo sfatto e invecchiato. Robert Redford, in All Is Lost, è davvero vecchio. Ma in questa senilità esibita trova la cifra del proprio personaggio e lascia che i cedimenti fisici e psichici emergano con naturalezza.

L’interprete, antidivo per antonomasia come pochi altri, era l’attore adatto anche per il finale ed il suo significato. Un finale di speranza e di lotta, di tenacia e combattività. Se l’intera pellicola non risente affatto dei suoi 144 minuti è anche grazie a Redford stesso, oltre che ad una modulazione narrativa calibrata nel dettaglio, dove la furia degli elementi investe il protagonista come lo spettatore oltre a mettere in crisi l’idea di progresso, di ricchezza e confort attraverso la distruzione e le inutilità delle tecnologie e degli elementi costitutivi il mondo moderno. Un wilderness-drama antologico che va a inserirsi nei migliori titoli del genere.

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