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L'ultimo pastore

Regia di Marco Bonfanti vedi scheda film

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La recensione su L'ultimo pastore

di lamettrie
10 stelle

Una grandissima opera, concepita completamente dall’esordiente milanese 32enne Bonfanti, con un equilibrio solido e mirabile. Breve (73 minuti), assolutamente incisiva nel messaggio che vuole trasmettere, con tutti gli annessi tecnici dovuti: fotografia, montaggio, sonoro, colonna sonora, non manca nulla.

L’impianto è rousseauiano, e mai retorico come invece facilmente sarebbe potuto scadere. La natura ha già dato gli elementi per godere della vita; il progresso e la civiltà paradossalmente contribuiscono a rovinare questa piacevolezza dell’esistere, anche creando problemi sempre più gravi. Una piacevolezza che è comune tanto all’uomo quanto a tutti i viventi, pur senza dimenticare i lato dolorosi di tale esistere.

Splendido l’incipit: il pastore non si vede, poi è sfuocato, infine si vede. Esattamente lo stesso climax d’attesa che hanno i bambini quando devono incontrarlo nel finale, in piazza Duomo a Milano. Nei piccoli suscita un’attesa e un’ammirazione notevoli, proprio per come fa incontrare “le ragioni” della natura. Notevole è anche il riferimento ai bambini, che non sanno nulla della natura, nell’invidiata metropoli; e il regista sottolinea bene il ruolo straordinario della maestra, e dell’istruzione in generale, che ha l’obbligo di  offrire le esperienze emotivamente, e dunque umanamente, più significative, a maggior ragione oggi, quando le esperienze naturali sono sempre più impossibili, come l’occidente capitalistico ha insegnato a   fare, con tutti i danni che ne conseguono, che sono più dei vantaggi. E tanto meno i bambini ne sanno, quanto più spontaneamente ne sono attratti: e gli animali sono la prima mediazione con essa natura. Evidentemente ne sono attratti per le emozioni reali, semplici, positive, che quasi solo il contatto con la parte naturale e spontanea di sé stessi dà. Il regista inscena l’implicita dimostrazione che la natura ci ha costretti a cercare essa, e non l’artificiale. Agghiacciante la realtà dello squallore cui ci siamo abituati (anche perché ci hanno abituati, coloro i quali ci hanno guadagnato a diffondere l’artificiale e il falso, rispetto a ciò che in natura già esiste), al confronto della bellezza della natura: i paesaggi medi dell’alta val Seriana, tra le Alpi bergamasche (che nel mondo, e certamente anche in Italia, non sono mica così inusuali!), sono incommensurabilmente superiori rispetto a quelli medi della città. Gli oggetti semplici, pur artificiali e scalcinati,  all’interno della natura hanno una dignità normale (la roulotte con il fornetto, gli interni della baita, che non è altro che una baracca…), che non è brutta; ma l’artificiale prodotto dall’uomo nella maggior parte dei casi è brutto, al di fuori della natura stessa. E lo dice, a buon diritto, una persona semplice, illetterata: perché chiunque può dirlo.

Inutile stare qui a sprecare parole per ripetere il male che l’uomo fa quando asservisce la natura al proprio comando (Bacone, un certo illuminismo, positivismo…, di cui peraltro chi scrive è anche un ammiratore, sotto tanti altri versanti). Stando in filosofia, è utile richiamare il riconoscimento che Hume, e vari scozzesi del ‘700 come lui,  diedero alla priorità delle emozioni naturali.

Memorabili soprattutto sono le tante pose che ha il pastore con una dignità da nobile ma non costruita, spesso sul suo asino. Cerca di vivere bene, e lo può fare solo in mezzo alla natura. Ha bisogno di libertà, da nomade. Non può stare in città e in fabbrica, dove soffre. Ma sotto il  profilo morale ha le sue radici, che si concretizzano in affetti solidi: il quadro della famiglia è autentico (questo è un gran documentario anche perché nessuno recita una parte, ma ognuno è sé stesso). Una famiglia che permette di conciliare autenticità, originalità e rapporti affettivi forti, capace di superare anche le distanze indotte da una vita spesso lontana dai propri cari. La camminata silente del pastore che tiene per mano la moglie e in spalla l’ultimo dei quattro figli è di eloquente verismo.

Gli animali, però, sono forse i veri protagonisti del film. I cani, fondamentali guide e affettuosi compagni, ma poi tutti gli altri. Splendide, sotto il profilo estetico, sono le scene del gregge in movimento, come dell’agnello appena nato.

Non si nasconde che viene mangiata la pecora che viene allevata. Contraddizione? Sì. Come del resto il pastore non è idealizzato: dice anche cose semplici, all’insegna di una visione della vita indubbiamente semplicistica, per certi versi. Ma per altri, forse più importanti, il messaggio passa benissimo, ed è incarnato in una vita basata su precisi valori. Che sono rivoluzionari a loro modo: richiedono rottura e isolamento rispetto agli errori della massa. Le scene di lui, come alla guida di un esercito pacifista, in mezzo alle strade della metropoli, capace di fermare le macchine immobilizzate dalle sue 700 pecore, sono la testimonianza vivente di una possibile reazione, che non accetta il male dilagante, ma che sa di dover pagare un prezzo alto, per la difficoltà della vita che sceglie di portare avanti, per lui e i suoi cari: ma che è irrinunciabile per la sua felicità.

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