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Noi non siamo come James Bond

Regia di Mario Balsamo vedi scheda film

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La recensione su Noi non siamo come James Bond

di (spopola) 1726792
8 stelle

Sulle vie del passato

si ritrova il domani.

 

Forse ha ragione Paolo Sorrentino nel considerare un film a tutti gli effetti (inteso come un’opera a soggetto) questo toccante cine-diario autoterapeutico che è sì un documentario (meglio definirlo “documento” però io credo), ma di quelli capaci davvero di travalicare i confini del genere e di diventare “altro” appunto, nel farsi testimonianza di vita e di amicizia, oltre che di una tribolazione per il momento (e per fortuna) superata, registrata (quasi) “in diretta”.

Un’analisi insomma leggera, garbata e “dolorosamente” ironica, totalmente proiettata sul futuro, che prova a raccontare davanti alla cinepresa (per altro senza indulgere in troppi sterili piagnistei), il senso di un’esperienza parallela che ha profondamente segnato i due autori (Mario Balsamo e Guido Gabrielli) amici e compagni di  avventure e di viaggi di lunga data, che si sono “ritrovati” uniti più di prima dopo una devastante malattia (un tumore il primo; la leucemia il secondo) vissuta con grinta e a testa alta fino in fondo, perché, parafrasando proprio Gabrielli, “la malattia non va combattuta come un’estranea”..

Applauditissima (e premiata) all’ultimo Torino Film Festival (di recente passata anche in televisione dove ho potuto recuperarla grazie alla premurosa segnalazione di Roger Tornhill) la pellicola proprio nel suo incedere lento e ben articolato, è prima di tutto stilisticamente pregevole, e poi (merito non secondario e fondamentale) totalmente priva di compiacimenti e sbavature oltre che decisamente insolita nel panorama delle opere che trattano di “personali traversie dell’esistenza”, piena com’è di piccole anomalie narrative rispetto a quello che di norma si intende essere il “doveroso” percorso di un documentario di questo tipo.

Riesce così a comunicare con assoluta naturalezza e inusuale freschezza di linguaggio, la necessità, il bisogno di mettersi in scena  e in gioco in prima persona per riaffermare (e rendere palese) il proprio diritto al ritorno a un’esistenza normale quando il pericolo è stato al momento scongiurato (anche se non in modo totalmente indenne perché i postumi sono ancora rilevanti), da parte di due uomini che se la sono davvero vista brutta.

 

Guido è un piccolo editore con l’hobby della chitarra, mentre Mario (è sua l’idea di fare il film, ed è  lui che è riuscito a coinvolgere nell’impresa anche l’amico più schivo e all’inizio abbastanza riluttante) è un documentarista affermato con una solida carriera alle spalle (e quindi il cinema, la macchina da presa, è per il lui il mezzo privilegiato per mettere a nudo anche le proprie emozioni).

Come ho già accennato sopra, entrambi sono stati colpiti da un brutto male (di quelli che “evocano” immediatamente la morte) ma entrambi, sia pure fra mille difficoltà e ansie, alla fine l’hanno superato, hanno avuto la meglio insomma (anche se per Guido con conseguenze decisamente rilevanti, visto che è insorta una forma di cronicizzato  “rigetto” alle cellule di midollo che hanno contribuito a dargli una speranza di futuro e con la quale deve comunque fare i conti giornalmente).

I nostri due “protagonisti” della storia, lasciando da parte la “pesantezza” della commiserazione sempre in agguato in queste circostanze, riflettono così davanti alla cinepresa sul senso della vita e della guarigione, in un percorso che con una accorta costruzione narrativa fatta anche di scarti temporali, li porta a una progressiva riscoperta di sé, non solo nell’approccio con il quotidiano, ma anche attraverso la percezione degli altri dopo il punto di rottura che poteva essere quello del “non ritorno” e una rinascita di nuovo consapevole che mette in evidenza anche le differenti mutazioni (inevitabili  dopo simili esperienze) del sentire e di percepire le cose, il mondo.

Un progetto dunque del regista di professione, che trascina l’amico in una nuova “avventura” condivisa, per riaffermare insieme e a doppia voce, la loro comune dignità (e anche la “fratellanza”), ma che si incrina un poco quando quest’ultimo ne respinge la troppa invasività (un incidente d’auto in cui è incorso Gabrielli e del quale non vorrebbe parlare) che li porta quasi a un passo da una possibile rottura (per fortuna poi ricomposta). Nel documentario appunto, si avverte molto bene che una parte delle scene è stata girata senza la consapevolezza di Guido e quasi di nascosto, per la necessità avvertita dall’uomo di cinema di essere narrativamente rilevante nel provare a descrivere (anche per rimarcare le differenze caratteriali) la reazione drammatica dell’amico relativa a quell’incidente. Il film possiede quindi anche il coraggio, la forza, di mostrare  le incomprensioni, le litigate e le diverse prospettive dei due co-autori che però nel finale si trovano di nuovo pacificati - e in buona parte rafforzati - da questa comune esperienza artistica, che come forse si è già ben capito, è solo in parte improntata sul reale, perché per altri versi (e questo specifico episodio può rappresentarne una prova lampante) può definirsi  anche di finzione, proprio perché capace di trasformare il percorso in un significativo gioco di specchi molto interessante e profondo in quel suo attingere ai ricordi del passato per rielaborare il reale del presente, recuperare le necessarie capacità lenitive (ciascuno a suo modo) di ricomposizione del trauma subito e ripristinare così la sintonia con ciò che ci circonda dopo aver suturato le ferite interne anche alla propria psiche. Solo scrutando (serenamente) il passato è possibile ritrovare la spinta per affrontare il futuro, insomma. Prima però bisogna trovare la forza e il coraggio per riappropriarsi di tutti i fondamentali valori dell’esistenza, spesso messi in sordina,  riscoperti e riconquistati  attraverso il dolore e la sofferenza.

Il progetto è dunque anche il certosino lavoro ricostruttivo di una memoria comune e di un sentire attuale che vive una biforcazione dovuta al prima e al dopo del“problema” affrontato: da una parte l’inevitabile irrequietezza di fronte a un’esistenza ormai meno frenetica  e quasi al rallentatore per i tempi morti dei controlli e delle analisi periodiche che tendono sempre a ricordare che la spada di Damocle è comunque rimasta posata sopra la tua testa pronta a colpire di nuovo, dall’altra la positiva ed energizzante riscoperta dei tempi più ristretti da sorseggiare senza perderne una goccia e delle altrettanto “piccole cose”  forse (indebitamente) considerate in precedenza più marginali di quanto non appaiano adesso.

 

L’elemento di assoluta novità però, la “molla giusta”, la leva narrativa che  rende la pellicola inedita e originale (presente per altro fin da titolo), sta  proprio nella ricerca “funzionale” alla storia di un contatto con Sean Connery (inteso come lo 007 per antonomasia) che incarna appunto per quel suo “indistruttibile” profilo di vincente, sempre e comunque, il mito inoppugnabile dell’uomo forte ed elegante, evanescente “miraggio” evocato dapprima in un divertente pranzo con Daniela Bianchi, indimenticata  Bond-girl di “Dalla Russia con amore” (nel corso del quale durante una pungente conversazione, l’attrice ne ridimensiona già il fascino primario facendolo ritornare fallibilmente umano, ricordandone sicuramente la  prestanza e la forza magnetica dello sguardo, ma mettendo al contempo in evidenza anche il “posticcio” uso del parrucchino per la calvizie già a quei tempi abbastanza incipiente e che mal si confaceva col personaggio da magnificare sullo schermo), e poi attraverso ripetute telefonate prima in Inghilterra e successivamente alla villa alle Bahamas del divo, filtrate dal gentile, ma impenetrabile staff dell’attore che rende “impossibile” ogni contatto, il tutto trattato con evidente e necessaria ironia (la leggerezza del tono è davvero impagabile) indispensabile per prendere alla fine proprio le distanze dall’icona che solo il mondo fittizio della celluloide rende immutabile e imbalsamato, per concludere proprio con una mesta consolazione (come ha scritto con altrettanta arguzia Mario Mazzetti) perché neanche il mito - o per dirla ancora meglio l’attore che lo ha reso tale sullo schermo - oggi si sente troppo bene…immiserito com’è dagli acciacchi dovuti a una “inimmaginabile “ vecchiaia che lo rende vulnerabile. E questo è un modo importante e straordinario per riconciliarsi un poco con la friabilità del corpo – quello reale degli umani – che può sfaldarsi per gli anni, gli acciacchi e le malattie, ma che però e per fortuna può sempre rigenerarsi e (ri)trovare nuovo vigore attraverso la resistenza attiva dello spirito e dalla determinazione.

Reale verso immaginario, insomma, che è poi anche la conferma che la vita non è (mai) un film. A mio avviso è per altro molto importante che ciò ci sia raccontato da chi (come appunto i nostri due “eroi”) ha girato il mondo con la genuina e sana leggerezza tipica dell’immortale, (in)seguendo il tempo finché questo non si è inceppato per aprire quella parentesi dolorosa che li ha costretti a ripensare in differente modo non solo ciò che resta da vivere della loro vita, ma anche la propria idea di eternità, perché, come qualcun altro ha scritto e definito meglio di me, adesso più di allora loro non sono come James Bond (non lo sono mai stati insomma), ma le loro debolezze esposte alla macchina da presa infrangono scogli emozionali che l’idolo di celluloide non avrebbe nemmeno considerato, ed è appunto così che ci riproiettano di colpo dentro l’esistenza del reale più serenamente consapevoli e coscienti di ciò che di negativo dobbiamo sempre aspettarci dalla vita.

Un pretesto narrativo insomma che riesce a rendere particolarmente godibile la trama del viaggio di questo vero e proprio ritorno alla vita, perfettamente simboleggiato nel finale dalla corsa sulla spiaggia di Sabaudia con tanto di bagno purificatore conclusivo, particolarmente  ricco di suggestioni cinematografiche, così da farci pienamente comprendere non solo che non c’è salto senza rincorsa, ma anche che un’altra giovinezza è (quasi sempre) possibile (basta crederci e “lottare” per riconquistarla) e non è solo un semplice un miraggio che qualche volta increspa il mare all’orizzonte.

Un narrazione intima  e personale, dunque: un inno alla vita e alla resistenza capace di trasmettere un senso di ritrovato appagamento che suscita emozioni sincere e provoca persino qualche momento di  rilassante  ilarità, il che è positivamente propedeutico, vista la tematica trattata, nel ricordarci che nella vita di ognuno di noi (che – ribadisco – siamo tutt’altro che dei James Bond) ci sono parentesi spesso dolorose che ci costringono a riconsiderare molte cose e che di ogni esperienza, anche la più negativa, è necessario mettere a frutto non solo la “lezione” ma anche il lato positivo che comunque esiste sempre, basta solo provare a raschiare il fondo per identificarlo.

Questo film presenta insomma una forte concretezza (anche diversificata nel messaggio) che contiene al suo interno un forte dibattito dialettico tra i due protagonisti (che si estrinseca pienamente nelle differenti posizioni dei due autori persino di fronte a quest’opera comune che per Mario Balsamo più che un film è soprattutto vita, mentre  per Guido Gabrielli si tratta invece di finzione, di un film perchè la vita è ben altro: divergenti opinioni sulle quali comunque si può serenamente discutere e confrontarsi.

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