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La vita di Adele

Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La vita di Adele

di ed wood
8 stelle

“La vita di Adele” è uno di quei film che esasperano il conflitto fra sceneggiatura e regia; conflitto nella cui bilanciata risoluzione risiede il segreto per la riuscita dell’opera. “La vita di Adele” punta al capolavoro, al film-fiume epocale, generazionale, radicale: mira ad essere termometro di un’epoca e di una società (e questo indipendentemente dalle intenzioni del regista: è semplicemente un sentore che emerge sin dal titolo, dalla durata, dalla trama, dal tour-de-force attoriale eccetera). E’ senz’altro uno di quei film che difficilmente si dimenticano, ma non raggiunge lo status di “capolavoro”: non è quell’opera compiuta e definitiva che avrebbe potuto essere. E questo, appunto, è dovuto alla frizione irrisolta che si viene a creare fra regia e copione. “La vita di Adele” è scritto abbastanza male (dialoghi a parte, che ovviamente restano il fiore all’occhiello dell’estetica di Kechiche). La scansione della vicenda, che consuma un considerevole lasso di tempo (dall’adolescenza liceale all’età lavorativa delle due protagoniste), si avvale di lunghi episodi, fra di loro staccati da improvvise ellissi (una tecnica peraltro non certo innovativa). E questo genera alcuni scompensi, non tanto nel ritmo, quanto nello svisceramento tematico. Infatti, l’evoluzione della love story fra Adele ed Emma non è tinteggiata impressionisticamente da episodi tanto apparentemente marginali quanto significativi, bensì è scandita secondo una progressione classica (da film sentimentale o melodramma) percorrendo tutte le tappe (incontro, innamoramento, passione, convivenza, crisi) in modo lineare. Eppure, qualche omissione viene fatta, specialmente per quel che riguarda i personaggi secondari; e il problema è che questi “buchi” non paiono frutto di scelte ben precise, quanto di decisioni “aleatorie”. Ad esempio: come ha risolto Adele il problema di dover spiegare il suo lesbismo ai genitori conservatori? C’è una scena (bellissima, come tante altre) in cui Adele presenta Emma ai suoi, spacciandola per una semplice amica; i suoi la bevono, e poi spariscono dal film e non ci è dato sapere come abbiano reagito alla decisione della loro figlia di andare a vivere con la fidanzata Emma. Eppure, anche i genitori (amati o detestati o sopportati che siano) fanno parte della “vita di Adele”: e allora perché Kechiche ha lanciato l’esca, per poi mollare la canna? Che senso ha introdurre il discorso-genitori per abbandonarlo subito? Idem per quanto riguarda il discorso-omofobia: le compagne di classe sospettano che Adele sia lesbica e la attaccano (in maniera peraltro inverosimile, visto che quell’ambiente scolastico era stato presentato come tollerante e visto anche che tutte sapevano della particolare amicizia che Adele nutriva con un compagno gay, sempre rispettato dai compagni). Da quel momento in poi, per tutto il film, non ci sono quasi più tracce di omofobia da parte di alcun personaggio. Ora, Kechiche ha sempre schivato la sociologia spicciola, la retorica, il vittimismo (e le differenze di classe, etnia e cultura trasparivano in filigrana da opere come “L’Esquive” e “Cous Cous”, come naturale conseguenza delle torrenziali conversazioni), e anche qui cerca di fare la stessa cosa: ma allora non sarebbe stato meglio evitare del tutto questo argomento? Osservazioni simili si potrebbero fare per altri temi, abbozzati e lasciati perire: i quadri di Emma, le differenze culturali e caratteriali con Adele e tanto altro ancora…Insomma, Kechiche non ha avuto la capacità di portare fino in fondo la sua idea di cinema anti-sociologico e anti-psicologico, piuttosto antropologico e naturalistico, dove tutto è affidato alla parola, all’espressione del viso (e del corpo), al comportamento istintivo; e così il suo dramma risulta impuro, opaco. E’ un peccato, perché a livello squisitamente registico Kechiche (coadiuvato da un montaggio impeccabile) è ancora in gran forma: le singole sequenze brillano di luce propria, per come sanno riprodurre con assoluta trasparenza le dinamiche della vita reale, avvalendosi di quel senso del ritmo e della suspence che solo un sapiente utilizzo del mezzo filmico sa rendere con efficacia (niente eccessi iperrealistici: siamo lontani dal cinema-veritè, da Cassavetes, dal Dogma95, dal mumblecore etc…). La banalità del quotidiano è sempre riscattata da uno stile che è l’esatto contrario della sciatteria. Il posizionamento della mdp non è mai casuale: se l’inquadratura è al 90% riempita da uno o più volti, c’è sempre spazio per un dettaglio (mai superfluo, sempre essenziale) in secondo piano. Fra i tanti momenti che testimoniano questa cura visiva, mascherata da pressapochismo, c’è il bacio ad intermittenza fra Adele ed Emma, con il sole accecante che invade l’immagine ogni volta che le labbra si staccano: una metafora brillante e romantica per la pericolosità della passione amorosa. Oppure il finale, tristissimo, con un volto di uno sconosciuto che “impalla” la soggettiva di Adele, impedendole (per sua fortuna) di vedere Emma che bacia la sua nuova partner. Qualcuno ha trovato “freddo” questo film: non mi sento di dare loro completamente torto. E’ coinvolgente, ma non commuove. Si tratta di un paradosso, vista anche la tematica struggente che tratta (specialmente nell’ultima parte). Forse il motivo va cercato nella suddetta “bravura” di Kechiche: nel dirigere lunghe ed articolate scene di dialogo, senza renderle per nulla dispersive, non ha rivali (a parte forse Tarantino, che ovviamente è quanto di più lontano si possa immaginare da Kechiche). Si può dire che sia un virtuoso del dialogo, del cinema della parola, del confronto attoriale, del primissimo piano; come De Palma è un virtuoso del piano-sequenza, e per questo veniva spesso bollato (in passato) come un talento “fine a se stesso”. Forse è vero che Kechiche si concentra tutto sulla riuscita “ritmica” della singola sequenza, dimenticando il resto: e questo rende un film come “La vita di Adele” trascinante e interessante fino alla fine, lasciando spesso stupefatti per la bravura tecnica; ma (per gli stessi motivi) si finisce per apprezzare il gesto tecnico, senza avere modo e tempo per conoscere nel profondo i personaggi e ciò che hanno da dirci a livello concettuale ed emotivo. C’è il sospetto, dopo questo film, che Kechiche sia un immenso talento, che corre però il rischio di trasformare la sua poetica in una mera questione di performance; come nella musica jazz/blues o acid-rock accade spesso di imbattersi in una irresistibile jam-session in cui gli sfavillanti assoli sono l’unica ragione di esistere di una composizione inconsistente. Il duello attoriale, tenendo conto dell’estrema difficoltà della parte (scene lesbo spinte da parte di ragazze etero; pianti improvvisi etc…), è vinto dalla Seydoux, espressiva, seducente, sensibile, disinvolta, molto abile a rendere l’evoluzione del personaggio; la Exarchopoulos invece risulta troppo monocorde, con la sua eterna aria da bambina (non la aiuta certo il pessimo, inconcepibile “lavoro” fatto dalla truccatrice!). 

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