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La vita di Adele

Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La vita di Adele

di yume
8 stelle

locandina

La vita di Adele (2013): locandina

Non è un caso che Adèle sembri assente durante le lezioni di letteratura a scuola, e poi dica, in contesti del tutto alieni da un edificio scolastico, che Marivaux l’affascina.

E non è un caso neppure che dichiari di ignorare chi è Egon Schiele e che le ostriche (soprattutto se vive) la fanno quasi vomitare.

Non è un caso che Emma dica di preferire Klimt, ma guai se le sue coltissime e super-alternative amiche dell’Académie des beaux arts le dicono che è “fiorito”. Macchè, Klimt fiorito? (cos’è, poi, per lei Klimt  dimenticherà di dirlo).

Quel che conta è che continui a copiare Schiele nelle sue tele dove Adèle continuerà ad esserci, anche dopo averla brutalmente buttata piangente fuori di casa con un pretesto di gelosia buono per coprire ben altre motivazioni, ben rimosse nel profondo.

Adèle è la “maestrina”, è la ragazzotta ben in carne che cucina ottimi spaghetti al sugo, è la figlia di genitori che non danno per scontato che sia parte di una coppia gay, è una che ha talento nello scrivere, ma si limita ad un diario personale. Adèle è una ragazza che vuol fare la maestra perché le piacciono i bambini, anzi, addiritura li ama e ne è riamata, li porta al mare, li fa recitare, insegna a leggere e scrivere.

Di questi tempi l’obiettivo di Adèle nella vita è troppo scarso, dovrebbe darsi da fare, emergere, sfruttare il suo talento scrittorio, diventare visibile, dunque degna di quel salto di scala sociale che le permetterebbe di compensare la provenienza piccolo borghese.

Invece la Lisa col pancione, prima amante di Emma, appartiene al milieu giusto (il doppiaggio degli attori è perfetto, va detto, il tono svagato da fanciulla in fiore di Lisa è reso anche in italiano in modo straordinario).

Con lei la coppia gay diventa “famiglia”, un figlio ci sta, evviva le nuove norme legislative.

Poco importa che il sesso con Lisa sia un po’… come dire… un po’ noiosetto, certo non al livello delle ottime performances con Adèle.

 

Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos

La vita di Adele (2013): Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos

Chi si lamenta della durata estenuante delle tre scene di sesso (che, però, diventano di volta in volta più brevi) dovrebbe riflettere sul fatto che sono il centro focale di tutto il film,e che se non fossero così esaustive, se fossero un riassuntino, di quelli che l’ipocrisia registica a volte ammannisce a platee prese per i fondelli, non avrebbe senso tutta la seconda parte del film.

Che, invece, un senso ce l’ha, eccome!

 

Dunque, il richiamo a Klimt nella parte centrale non è casuale, dicevamo.

Ricordiamo Le tre età della vita nel Fregio di Beethoven a Vienna  (piccola parentesi, le citazioni in Kechiche sono godimento puro, così abilmente camuffate nelle pieghe della vita quotidiana!).

Infanzia, giovinezza, e dunque maternità, vecchiaia.

Prima che la vecchiaia giunga con la sua orrenda maschera di morte, il corpo deve celebrare i suoi fasti, dunque procreare.

Se si è gay si trova il modo, e se la legge lo consente, meglio.

Durante uno dei dialoghi del film (che definire banali è snobistico esercizio, come quel fottutissimo modo di parlare ai vernissage che contano, mentre Adèle si guarda smarrita intorno e poi se ne va, sola, per la sua strada), bene, durante uno di quei dialoghi, un ragazzo chiede ad Adèle qualcosa del genere: “Ma tu non desideri un figlio?”.

Stacco, dissolvenza, cambia la scena.

Adèle non ha risposte, non può averne, è un problema che non si è posto, perché non è un problema che si pone quello di vivere la propria sessualità, si vive e basta, e se in questo vivere il procreare è escluso non lo si fa rientrare dalla finestra.

Adèle è fuori dagli schemi, fuori da quelle cornici di falso anticonformismo dentro le quali Emma compone i suoi altarini.

Ostriche, studi d’arte, un figlio per procura, il successo con quadri che non spostano di una virgola in avanti il cammino della storia dell’arte, ma fanno tanto “serata che conta in un quartiere alla moda dal gallerista di successo”.

Questa è la ragazza dai capelli blu, anche quelli così alternativi (in seguito, col cambiare dei colori e dei tagli, e soprattutto di status sociale, si avvertirà forte la mano di un buon parrucchiere).

Adèle, al contrario, è vita così come viene. Lei morde la vita, ci si tuffa senza macerarsi in psicologismi estenuanti, vederla mangiare, piangere, far l’amore, ogni volta è un piacere. Lei non è difficile, in nulla di quello che fa c’è artificio. Lineare e profondamente umana, naviga nel mare di un’ umanità spesso contorta, delirante, ipocrita, disumana.

Nei bambini trova la sua felicità, e lo dice, a suo modo, ad un certo punto, mentre Emma la spinge ad essere felice  scrivendo romanzi e racconti, convinta che la felicità sia una cosa molto complicata.

Adèle invece sa essere felice, anche se resta sola e fa fatica a crederci lei stessa.

Ha vissuto con pienezza la sua passione, le appartiene di diritto, poco importa che l’altra sia andata via, le storie non possono essere eterne.

Quello che le resta è patrimonio perenne.

Adèle gira le spalle e va lungo quella strada nella scena finale. Nulla che faccia prevedere il futuro.

La vita è ogni volta improvvisazione, e questo film, che sembra nascere in ogni scena da un atto creativo, ce lo ricorda.

Ma improvvisazione non vuol dire casualità.

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