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Still Life

Regia di Uberto Pasolini vedi scheda film

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La recensione su Still Life

di spopola
8 stelle

L’eccellente tenuta stilistica ha nella delicatezza del tocco l’elemento di maggiore riconoscibilità dentro a un percorso narrativo struggente ed efficace in cui all’apparente grigiore del contesto si contrappongo le peregrinazioni del protagonista che rendono palese quello spirito di fratellanza che troppo spesso viene colpevolmente disatteso.

“(…) Ho scelto Still life come titolo di questa mia ultima fatica per la molteplicità di significati che si porta dietro questa semplice frase nella lingua inglese: non solo “natura morta” dunque, ma anche “ancora vita”, che è proprio quello che più mi ha ispirato, o ancora “vita ferma”, o addirittura “vita fotografata”: una multi-semanticità insomma particolarmente calzante che ben si coniuga con la struttura e il senso del mio film che parla della morte, è vero, ma che alla fine punta i riflettori proprio sulla vita”.(Uberto Pasolini)

 

Uberto Pasolini (italiano di nascita, se si tiene conto dei suoi dati anagrafici, ma inglese di adozione, e soprattutto di formazione anche culturale) si fregia di un cognome davvero molto impegnativo: in nome omen(il destino racchiuso in un nome) si potrebbe dire, se non fosse che si tratta invece di un semplice caso di omonimia, poiché nessun effettivo vincolo di parentela lo lega alla famiglia di Pier Paolo, anche se a pelle rimane comunque forte la suggestione che ne deriva. Se si considera però che ci sono altre prestigiose ascendenze di altrettanto valore e significato, potremmo comunque continuare a parlare di “predestinazione”, visto che oltre a quel cognome sicuramente ingombrante, porta sulle sue spalle l’onere e l’onore di essere il nipote di Luchino Visconti: basta aggiungere allora a quell’in nome omen”  “buon sangue non mente”(il che oggettivamente non è sempre vero, come la storia ci insegna, ma che in questo caso a me sembra invece che possa calzare a pennello, ovviamente sempre facendo le debite proporzioni) e il gioco è fatto, e la saggezza documentata delle frasi fatte e dei proverbi, pienamente rispettata.

Rimane indubbia infatti la grandissima forza attrattiva che il cinema ha esercitato su di lui da sempre e che lo ha orientato persino nella scelta della sua professione che è diventata quella del produttore che per una volta potremmo definire “illuminato” e competente, una figura che in questo campo non è mai di secondaria importanza. In tale veste, ha al suo attivo fra le altre cose, lo stratosferico successo internazionale di Full Monty – Squattrinati organizzatiche è stato uno dei casi più eclatanti e fortunati di fine ‘novecento, e tanto basta per definirne anche semplicemente le sue capacità “intuitive” che ben sanno fiutare il mercato. 

Non so se quella di produttore sia considerata da lui la sua vocazione primaria, ma è indubbio che con le sue scelte ha dato un ottimo contributo a vivacizzare la cinematografia inglese di questi ultimi anni, anche se non tutte le ciambelle gli sono poi riuscite sempre con il buco (penso al recente tonfo di Bel Amì. Storia di un seduttore da Guy de Maupassant, un progetto in cui credeva ciecamente e sul quale aveva investito molto, ma il cui risultato è stato oggettivamente deludente - e non solo sotto il profilo artistico - nonostante un cast importante ma sostanzialmente sbagliato soprattutto nella scelta di un protagonista decisamente povero di carisma e di spessore oltre che di adeguate doti interpretative, e con l’aggravante di una sceneggiatura  troppo semplificata e di un tandem di registi semiesordienti del tutto inconsistenti).

Adesso penso però che sia possibile fare anche una valutazione della sua più defilata attività di regista, pur considerando comunque che è stato molto parco nel dosarsi (due sole opere in ben 5 anni): se il debutto infatti era già stato ampiamente positivo con quel Machan – La vera storia di una squadra di pallamano che sorprese Venezia nel 2008 transitando per le Giornate degli autorie dove si aggiudicò il premio FEDIC (Federazione dei Cineclub), con Still lifeha fatto adesso clamorosamente e giustamente il bis tornando a casa dal Lido con il consenso unanime degli spettatori e della critica (è stato uno dei più intensi, commossi e convinti successi dell’ultima Mostra) e un ben più consistente carnet di riconoscimenti (premio per la migliore regia nella sezione Orizzonti, premio Pasinetti per il miglior film,  premio Cicae e premio Civitas Vitae, oltre che – successivamente – il premio FICE a Mantova). Il consenso non è poi mancato nemmeno nella sua programmazione in sala che si è protratta per l’intero periodo delle festività Natalizie e in alcune città prosegue ancora adesso, il che significa che la risposta del pubblico pagante è stata più che soddisfacente.

Apprezzamenti tutti più che meritati e che gli spettano di diritto e quasi in toto essendo al tempo stesso produttore, sceneggiatore e regista di questa delicata e toccante “opera seconda” (e sappiamo quanto sia difficile  mantenere le promesse e addirittura superarle quando, dopo un esordio ritenuto più che promettente, ci si riprova e solo raramente ci si conferma all’altezza). Apprezzamenti insomma che gli fanno onore e che confermano la validità del suo personalissimo “stile british” utilizzato per una messa in scena molto rigorosa, sobria, pulita e inappuntabile, ma che in questo caso devono necessariamente comprendere anche la bellissima prova di tutti gli interpreti, con in pole position quella davvero stratosferica fornita da un fenomenale Eddie Marsan (definirla come eccezionale, rende solo una pallida idea  della sua grandezza) che ha dato un contributo più che sostanziale all’esito fecondo della riuscita (anche sul piano commerciale) di un film che è entrato di diritto nel cuore degli spettatori. Un Eddie Marsan finalmente affrancato dal ruolo di caratterista (che ha sempre ricoperto con altrettanta efficacia ed eccellenza), che ha anche la figura giusta per  vestire i panni di John May e diventare tutt’uno con il personaggio: una creazione personalissima la sua, trattenuta e quasi interiorizzata ma fortemente empatica, ottenuta lavorando soprattutto sulla postura del corpo, l’andatura, il volto spesso ripreso in primo piano con la mobilità degli occhi e la potenza variabile dello sguardo. Uno scavo profondo insomma tutto in sottrazione totalmente privo di enfasi e di sbavature, di quelli che si definiscono scolpiti col cesello e curato in ogni minimo dettaglio, che spero gli aprirà le porte per ulteriori prove di altrettanta intensità.

 

Quando la morte mi chiamerà

nessuno al mondo si accorgerà

che un uomo è morto senza parlare

senza sapere la verità

che un uomo è morto senza pregare

fuggendo il peso della pietà (Fabrizio de André, Il testamento)

 

Si avverte un’adesione profonda alla storia e al suo protagonista da parte di Pasolini, e non è di conseguenza un caso che lui consideri questa pellicola il suo film  più personale e sentito (compresi quelli che ha prodotto), perché qui si è indirettamente “raccontato” attingendo proprio dalle sue emozioni più private e profonde come non aveva mai fatto in precedenza: “il protagonista sono io – ha ripetuto più volte durante le interviste – molte sue caratteristiche, molte piccole ossessioni sono le mie: mi ci sono proiettato dentro anche con qualche patema d’animo devo dire. C’è infatti anche una piccola e dolorosa esperienza tutta privata che è poi quella di essere rimasto da solo a causa del divorzio dopo aver vissuto per 15 anni con mia moglie e tre figlie  (il regista si è separato definitivamente da Rachel Portman, famosa compositrice vincitrice di un oscar per Emma nel 1997, che ha firmato anche la colonna sonora di questo film). Ora tornare la sera a casa – a 500 metri di distanza da quella precedente – e trovarla buia, è un’esperienza che mi stringe il cuore. Apro la porta e accendo la luce: per la prima volta dai tempi studenteschi provo un certo tipo di solitudine, così mi sono proiettato in quella che deve essere la vita di chi non è costretto ad affrontare solo tre ore di solitudine, ma tutto il giorno, ogni giorno. Persone per le quali l’unico contatto umano è con chi gli riempie la busta della spesa al supermercato. Quando entri nel problema e lo sperimenti in prima persona, ti rendi conto di quanto sia difficile combattere  quell’isolamento e tornare indietro. Mi ci sono immerso dentro e ci ho visto riflesso molto di un mio possibile futuro solitario: che cosa mi succederà se non sarò capace di trovare – e dovrò farlo in fretta – un’altra persona che mi stia a fianco? Rifletti allora anche su altre cose: per esempio per quante persone sei davvero importante e significativo, e questo ti fa pensare alla qualità delle tue amicizie, all’assoluta necessità di rimanere coinvolti nelle vite degli altri e non di sfiorarle soltanto come purtroppo si fa sempre più frequentemente. Solo così si riesce a sopravvivere, altrimenti si è finiti. (…) Il suggerimento, l’ispirazione e lo stimolo, sono venuti dopo aver letto un articolo-intervista su un funeral officer di Westminster che parla della sua professione. Ovviamente la prima cosa che mi ha colpito è il fatto che esista questo lavoro e che esista da tempi immemorabili proprio perché qualcuno deve occuparsi di chi muore, se non altro per motivi di igiene. Per preparare il film e documentarmi meglio, ho poi accompagnato due funeral officier (nella zona di Londra adesso sono una quarantina) ai funerali, nelle visite a casa, e addirittura nei loro meeting. Purtroppo la crisi morde e qualcuno perde il posto come nel film: chi rimane si trova così con un lavoro raddoppiato e dunque ha meno tempo per occuparsi dei “clienti”. L’idea, l’immagine che più mi ha ossessionato in questa mia esperienza, è quella di una tomba sola, un rito funebre senza nessuno presente: la considero un’immagine-chiave dell’isolamento che esiste sempre più forte nella società occidentale. Isolamento per molteplici questioni: i matrimoni si disfanno, il figlio esce di casa e il genitore con cui viveva rimane solo. Ma non c’è soltanto questo, basti pensare all’egotismo e all’egoismo della nostra società, nonché alla crescente mobilità delle persone, che lasciano (o sono costrette a lasciare) il proprio paese e i legami che avevano, alle morti di un coniuge o compagno/a. Del resto, anche il senso del vicinato sta scomparendo: se conosci i tuoi vicini non solo di nome ne sei coinvolto, te ne occupi, ma sempre meno è così.

 

Ci sono delle pellicole in cui ci si ritrova più che in altre, poiché ci aiutano a ridefinire le nostre ossessioni e le insicurezze: ecco, Still life è stata per me una di queste e non perché ci sia qualcosa che mi crei qualche possibile disagio per il “dopo”, poiché la mia razionalità non mi permette ormai da molto tempo di immaginarmelo quel “dopo”, o anche e più semplicemente, di ritenerlo possibile (e in questo mi sento di condividere persino il ragionamento del solerte burocrate chiamato a tagliare quelli che considera essere i rami secchi della propria amministrazione comunale: “i morti sono morti, a loro non importa più; i funerali sono per i vivi e, se non ci sono parenti, perchè affannarsi?”.

Questo in teoria però, perché poi in pratica siamo così incapaci (o almeno io lo sono) di dare forma a quel probabile “nulla”, che ci è quasi impossibile “abbandonare” quel corpo ormai inutile che ci conteneva fino a considerarlo davvero un vuoto simulacro in decomposizione buono soltanto per concimare la terra. Continuiamo invece a coltivare segretamente l’idea che sia l’ultima e unica tangibile traccia che rimane della nostra esistenza e inconsciamente vorremmo che come tale, venisse celebrata da qualcuno attraverso quei riti esorcizzanti del funerale e della sepoltura (del quale comunque e intendo ribadirlo, noi sicuramente non avremo alcuna conoscenza) che consideriamo necessari – insieme alla tomba e al cimitero, vero e proprio parco delle rimembranze - per mantenere attive e palpabili le memorie da tramandare.

Dunque è certamente il “di qua” raccontato nel film che mi ha creato sconquasso e turbato oltre misura perché è solo a questo che sono attaccato e nel quale mi riconosco (la sconfinata bellezza del vivere, come, nella sua recente recensione al film, l’ha definita @ LorCio - o meglio e per l’esattezza, Renzo Tosi, il suo professore di storia dello spettacolo nel mondo antico che non condivide nemmeno la concezione della morte come purificazione). Io per la verità non credo di poterla definire con altrettanto entusiasmo l’esistenza (mi fa comunque piacere che almeno qualcuno sia così positivo rispetto alla sofferenza del vivere), poiché per le mie esperienze personali, sono decisamente più in sintonia con Ungaretti nel ritenere che la morte si sconta vivendo (e non è certo un bel pensare)...

Ritornando comunque alle dichiarazioni programmatiche del regista, quello che ha coinvolto in prima persona il mio sentire, è stato proprio quel rapporto inscindibile di vita e morte,  poiché se è vero (e cito ancora De André) che quando si muore si muore soli sempre e comunque, è altrettanto veritiero e terribile immaginare di dover morire “da soli” e da soli essere costretti ad affrontare le fasi ancor più angoscianti che precedono il trapasso  (io  ritengo che in qualunque modo e forma si presenti, sia un “passo” e un momento, tutt’altro che indolore, esattamente come  non lo è stato quello traumatico della nascita). Ed è proprio questa evidenza di solitudine a farmi più paura, l’angoscia che una morte improvvisa potrebbe sicuramente far trovare il mio cadavere (ancora questa stupida ossessione del corpo) dopo molti, troppi giorni e in stato di avanzata decomposizione.

Un disagio spaventato, analogo insomma a quello che a mio avviso prova interiormente anche il grigio impiegato comunale John May, e che è poi ciò che lo spinge a compiere con tanta solerzia quella che per lui è diventata una vera e propria “missione”, oltre che la sua principale ragione di vita: la paura di un uomo che non ha più affetti né riferimenti e conosce sulla propria pelle quanto sia penosa e triste quelle condizione, e che di conseguenza cerca di compensare il suo vuoto provando a rintracciare i parenti più prossimi di chi è morto in altrettanta solitudine, quelli appunto di cui di solito ci si accorge che non ci sono più quasi sempre a causa del cattivo odore che appesta i vicini.

Lui fa insomma quello che vorrebbe fosse reso a lui e nell’impossibilità di poter provvedere per se stesso, non solo cerca i possibili legami parentali di chi lo ha preceduto nel trapasso, ma anche quando questi pur individuati si confermano indisponibili, si preoccupa di fare le loro veci e si accolla l’onere (che per lui è un onore) di presenziare alla cerimonia delle esequie, e per quelle, scrive addirittura i discorsi che il prete pronuncerà durante l’orazione funebre costruiti sulla base delle frammentarie informazioni che è riuscito a racimolare, spesso recuperate attraverso i tenui indizi forniti da un oggetto, una lettera, un semplice tesserino o le tracce della presenza di un animale nella vita del defunto, finendo anche per scegliere le musiche che ritiene essere più adatte per accompagnare la funzione, anche se poi alla fine sarà soltanto lui ad ascoltarle.

 

quando la morte mi chiederà

di restituirle la libertà

forse una lacrima forse una sola

sulla mia tomba si spenderà

forse un sorriso forse uno solo

dal mio ricordo germoglierà

 

Le sue indagini sono accurate nella monotonia ritualizzata delle sue giornate in solitaria: un’esistenza ripetitivamente metodica fra casa e ufficio fatta di pochissimi contatti umani e scandita  dagli appuntamenti per il pranzo (le “nature morte” dei suoi piatti sempre uguali: bellissime le immagini a queste dedicate, un quadro astratto dove troneggia al centro il tonno di una scatoletta o il pesce che gli è stato regalato nel corso di una ricerca che, come molte altre, sembra non dover portare a nessuna soluzione positiva e risolversi in un ultimo fallimento con conseguente sepoltura consumata nell’oblio), o da dedicare alla consultazione serale di quell’album “di famiglia” dove ha raccolto la foto e le poche tracce di un passato solo parzialmente recuperato, di ognuno dei “clienti” che ha accompagnato all’ultima dimora, unico baricentro della sua altrimenti incolore esistenza. Sono insomma loro ad essere di fatto la sua famiglia residuale poiché è con quelle vite che è comunque entrato in contatto acquisendone una specie di indiretta conoscenza. Un rapporto “sodale” di differenti solitudini che  è anche – come ho già detto prima – un modo per specchiarsi in una fine che potrebbe essere anche la sua.

Detta così, sembrerebbe una storia di un’angoscia cosmica, quella di questo antieroe alla Kaurismaki (ben più sensibile e lucido però, poiché assolutamente consapevole di ciò che lo aspetta, tanto è vero che si è già assicurato da tempo una tomba decente da erigersi nello spazio acquistato  nel cimitero in  cima alla collina da cui probabilmente sogna di poter continuare a “scrutare” il cielo per l’eternità). Posso però assicurarvi che è tutt’altro che così, poiché grazie a una sceneggiatura scritta in punta di penna, essenziale ed efficace e alla struttura narrativa delle immagini, qui c’è invece  persino da (sor)ridere in qualche piccolo tratto e la visione, pur nella sua tragicità, è tutt’altro che pesante: scorre via veloce ben servita da una cinepresa che segue spesso da vicino il volto e le movenze del magnifico attore che veste i panni del protagonista, quell’Eddie Marsan del quale mi sono già sperticato a decantarne la bravura, che qualcuno – per stare solo al presente e alle sue ultime apparizioni sullo schermo - ricorderà senz’altro per lo meno nei panni del marito sadico della protagonista di Tyrannosaur  e rimarrà di conseguenza stupefatto nel constatare come lo stesso volto grazie alla sublime arte del recitare, può assumere invece i contorni (o per meglio dire ancora, “trasformarsi”) del piccolo eroe positivo che ci viene descritto da Pasolini, e che il finale tenderebbe probabilmente a definire addirittura come l’ultimo dei giusti.

Tornando alla storia, il nostro uomo si trova un giorno a doversi occupare della morte dell’anziano Bobby che abita nella sua stessa via, trapassato in solitudine dietro a quella “sconosciuta” finestra di fronte davanti alla quale lui è passato ogni giorno nell’indifferenza generale, un fatto che coincide con il suo licenziamento perché “troppo lento” da parte di un arido e zelante nuovo dirigente che non ci pensa due volte a ottimizzare spese e competenze (i morti sono morti, a loro non importa più: i funerali sono per i vivi e se non ci sono parenti, perché affannarsi a ricercarli?, appunto) il che genera in John ormai diventato un ramo secco, l’assoluto bisogno di portare a termine ad ogni costo almeno quell’ultima missione: la ricerca della famiglia, dei legami di cuore e di amicizia che indubbiamente e come tutti, anche quell’ex ubriacone manesco già paracadutista alle Falkland, una volta avrà pure avuto, ma con i quali ha da tempo “interrotto” il contatto… forse una figlia e qualche altro affetto di analoga natura “sentimentale”, qualche compagno di percorso, i vecchi commilitoni che ancora si ricordano di lui…

Un caso umano come tutti gli altri, ma più importante proprio perché riguarda una persona che “potrebbe” persino avere incontrato senza accorgersene, data la vicinanza, che diventa il puntiglio per mettere il suggello e concludere in bellezza la sua silenziosa, anonima carriera di travet, ma così preziosamente umana nella sua atipicità controcorrente, finalizzata a garantire una tardiva dignità, sia pure fuori tempo massimo, ad anime altrettanto smarrite e disperate.

E alla fine e grazie alla sua caparbietà certosina, l’uomo dimostrerà  nei fatti di avere avuto ragione, perché a volte basta semplicemente trovare la maniera giusta per riallacciare i fili invisibili di  relazioni spezzate, di legami e amicizie tranciate da rancori e indifferenza, di affetti negati ma tenuti ben presenti dentro al cuore, per riuscire a compiere il piccolo “miracolo” di portare al superamento delle incomprensioni che si erano stratificate incancrenendosi sempre più giorno dopo giorno, anno dopo anno…

 

La tenuta stilistica è eccellente: l’opera presenta infatti la necessaria pulizia formale di una messinscena inappuntabile che ha nella delicatezza del tocco l’elemento di maggiore riconoscibilità dentro a un percorso narrativo struggente ed efficace in cui all’apparente grigiore del contesto si contrappongo le coinvolgenti peregrinazioni del protagonista che rianimano la speranza e risvegliano quello spirito di fratellanza e di condivisione che troppo spesso viene colpevolmente disatteso: siamo così presi ad inseguire il nostro ego che ci si dimentica purtroppo di tutto il resto e il riconoscerlo attraverso le emozioni che nascono genuine dalla visione di questa toccante opera, è già un indiscutibile passo in avanti per riconsiderare i nostri rapporti con ciò che ci circonda, se si è davvero capaci di fare tesoro della “lezione” etica e morale che ci è stata veicolata attraverso l’asciutta  essenzialità di una visione che va diritta al nocciolo della questione nel suo disincantato incedere privo di arzigogolati orpelli e il passo felpato della commozione, alla ricerca frenetica e costante di un passato che forse non si vuole ricordare (ci ha fatto persino troppo male) ma esiste, e col quale sarebbe davvero indispensabile riuscire a fare finalmente i conti. La soavità di uno stile insomma molto anglosassone non solo dell’ambientazione ma anche nell’impeccabile aplomb che lascia molto spazio persino all’amarezza di un sorriso, che si mantiene costante (inteso come “fedele” a se stesso e a un modo di fare cinema) per tutta la durata della pellicola, e con un solo piccolo slittamento di un finale che preso di per sé può essere persino (e ancora) sorprendente e bellissimo proprio nel suo essere magari prevedibile, ma certamente inaspettato, oltre che molto coinvolgente. E’ indubbiamente uno di quelli che induce alla commozione nel suo conferire alla storia un tono poeticamente prodigioso e molto empatico che non teme il rischio di scivolare verso una deriva troppo sentimentale, ma che a mio avviso è estraneo a tutto il contesto precedente  che poggia  appunto su quella costruzione realisticamente essenziale, stringata e molto trattenuta, che come abbiamo visto ne rappresenta il valore aggiunto, costruita in piena sintonia di intenti con il carattere umanissimo e pietoso del suo protagonista che Marsan ha reso indimenticabile.

Io insomma avrei di gran lunga preferito (ed è soprattutto un problema di stile e di tenuta della forma) che ci si fermasse sullo sguardo di John rivolto verso il cielo e su quel tenue sorriso che increspa leggermente le sue labbra anziché degradare verso questa  elegiaca chiusura che intende forse restituire un senso e regalare un premio tutt’altro che necessario proprio nell’economia dell’opera, a questo misconosciuto eroe e alla sua abnegazione. Va comunque riconosciuto  (e la cosa non deve essere assolutamente sottovalutata) che è proprio questa forse un poco azzardata conclusione (realizzata anch’essa più che bene, anche se con differente perizia), che fa uscire gli spettatori dalla sala con gli occhi lucidi per qualche lacrima versata e molta commozione (confesso che questo è accaduto anche a me, e non mi tiro indietro nell’ammetterlo, devo dire senza provare per altro nemmeno un minimo di vergogna): ribadisco che avrei preferito che non ci fosse, ma visto che il regista ha deciso diversamente, perché non lasciarsi trascinare allora dal coinvolgimento emotivo che indubbiamente provoca?

Il  regista prova a suo modo a mantenere anche qui la delicatezza del tocco, ma non ci riesce del tutto e finisce di conseguenza per sfiorare da vicino il patetico, poiché alla fine con questo “compenso post-mortem” che ha il senso di una “riconciliazione”, ogni cosa viene spinta verso uno smaccato romanticismo che si colloca dalle parti di  Piccola città” di Thorton Wilder (I vivi non capiscono, vero? Sono un po’ come se fossero chiusi in tante piccole scatole. (…) mi sembrano passati almeno mille anni…(…) Quando finirà questa sensazione di essere fra loro… di non aver oltrepassato la barriera? (…) Ecco, guarda, se ne vanno.. la visita al cimitero è già finita. (…)la mia vita laggiù… come potrò dimenticarla? E’ tutto quello che conosco. E’ tutto quello che ho avuto. (…)C’è nessuno… nessun essere umano che sappia quello che sta vivendo quando lo vive? Nessuno! (…) Gli esseri umani ecco dunque come sono: ciechi… soltanto ciechi) o addirittura nei pressi di Spoon River Anthology di Lee Masters pur non avendo la stessa necessità e urgenza di quell’opera fondamentale della letteratura americana.

Un finale insomma estraneo rispetto a tutto quanto si era visto prima che rimane l’unico perdonabilissimo neo (ma so di essere una delle poche voci fuori dal coro e che è forse la mia razionalità e il mio non riconoscere in alcuna forma l’al di là che mi fa essere un tantino prevenuto al riguardo) che non inficia certamente il risultato, poiché come ho già scritto, contribuisce semmai a  rendere il film decisamente molto più empatico e affascinante per la maggioranza degli spettatori (il che alla fine forse era proprio ciò che voleva ottenere il nostra talentuoso regista che è anche il produttore – non dimentichiamolo – della sua opera).

 

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,

il debole di volontà, il forte di braccia, il buffone, l'ubriacone,

l'attaccabrighe?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Uno morì di febbre,

uno bruciato in miniera,

uno ucciso in una rissa,

uno morì in prigione,

uno cadde da un ponte mentre faticava per moglie e figli -

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono Ella, Kate, Mag, Lizzie e Edith,

il cuore tenero, l'anima semplice, la chiassosa, la superba,

l'allegrona? -

tutte, tutte, dormono sulla collina.

Una morì di parto clandestino,

una di amore contrastato,

una fra le mani di un bruto in un bordello,

una di orgoglio

infranto, inseguendo il desiderio del cuore,

una dopo una vita lontano a Londra e Parigi

fu riportata nel suo piccolo spazio accanto a Ella e Kate e Mag -

tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono zio Isaac e zia Emily,

e il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton,

e il maggiore Walker che aveva parlato

con i venerandi uomini della rivoluzione?-

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Li portarono figli morti in guerra,

e figlie che la vita aveva spezzato,

e i loro orfani, in lacrime -

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dov'è il vecchio Jones, il violinista

che giocò per novant'anni con la vita,

sfidando il nevischio a petto nudo,

bevendo, schiamazzando, infischiandosi di moglie e parenti,

e danaro, e amore, e cielo?

Eccolo! Ciancia delle sagre di pesce fritto di tanti anni fa,

delle corse di cavalli di tanti anni fa a Clary's Grove,

di ciò che Abe Lincoln disse

una volta a Springfield.(Edgard Lee Masters, La collina da Spoon River Anthology - trad Fernanda Pivano)

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