Regia di John Michael McDonagh vedi scheda film
«Non ha senso uccidere un prete cattivo. Ucciderò te. Perché sei innocente. Come ero io». La voce è quella di un uomo ferito dalle molestie di un sacerdote (come in El Club di Larraín). Le parole sono sussurrate rocamente, a padre James, nel confessionale di un paese nel nord dell’Irlanda. Comincia così, Calvario: con un Golgota prefissato, sulla spiaggia, con un Venerdì santo profano, deciso per la domenica a venire. La Via crucis dei giorni scorre, e lo whodunit su chi è l’assassino venturo si scioglie nell’incedere del dovere del curato di campagna, nell’incontro con gli abitanti di una comunità ridotta ai minimi termini, ai sospetti di un giallo di Agatha Christie, alle figurine stereotipiche di un film?Ealing. Ma non è postmodernariato ludico. Come in Un poliziotto da happy hour, come nei film del fratello (In Bruges, 7 psicopatici), a McDonagh interessa la scrittura del sé, il dialogo con la maschera che s’indossa, con i dogmi con cui ci definiamo: Calvario è un teatro dell’assurdo, in cui gli abitanti (il prete buono, la donna facile, il medico ateo, lo scrittore in esilio...) propinano le proprie battute migliori, e al contempo soffrono dell’essere ridotti a personaggio. Così, in questa galleria di maschere dolenti, di stereotipi irrequieti, la fede che il film sostiene (e per cui James s’immola) non è quella in Dio. Ma quella nell’uomo. Oltre il cinismo, oltre il mondo ridotto a retorica vuota, a linguaggio automatico, a gioco di ruolo, a ronde del pregiudizio.
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