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Third Person

Regia di Paul Haggis vedi scheda film

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La recensione su Third Person

di deepsurfing
5 stelle

 

Ci sono tre storie intrecciate: a Parigi un famoso scrittore in crisi (Liam Neeson) è alle prese col suo nuovo romanzo e con un'amante invadente e volubile (Olivia Wilde); in Italia un americano spione di moda (Adrien Brody) si invaghisce di una zingara (Moran Atias) e la aiuta a riscattare la figlia in mano alla malavita; a New York una cameriera (Mila Kunis) combatte per poter rivedere il figlio che le è stato tolto per una sospetta violenza famigliare.

Tutte le storie hanno un nucleo segreto, un dramma molto simile che ha sconvolto la vita dei protagonisti e che alla fine ricondurrà le tre finzioni alla matrice reale, la biografia dello scrittore. Ma dove finisce la finzione e dove inizia la realtà? Mettere pezzi di vita nel racconto è la scorciatoia per uno scrittore in crisi o è un modo per sublimare il dolore attraverso la scrittura?

Questa è la struttura del film e il suo tema di fondo, evocato dal titolo: la “terza persona” è il punto di vista impersonale, quello del racconto classico; però lo scrittore protagonista della prima storia lo usa anche nel proprio diario, come a dire che la sua vita è già pronta per diventare racconto, e la scrittura pronta a vampirizzare gli affetti, le relazioni più intime, i drammi più laceranti.

Haggis mette in scena quest'ambiguità tra vita e scrittura giocando col punto di vista filmico. Apparentemente lo spettatore si trova di fronte al classico nobody's shot, lo sguardo impersonale dell'autore-regista che ci racconta la storia parigina dello scrittore montata in parallelo con la storia italiana dell'americano e della zingara e con la storia newyorkese della cameriera. Man mano che il film procede, però, si è portati a pensare che quella dello scrittore sia la storia “vera” e che le altre due, benchè intrecciate senza soluzione di continuità con la prima, siano storie inventate dallo scrittore. Ma anche questa convinzione comincia a vacillare quando la storia “vera” interferisce con una delle storie inventate (l'albergo newyorkese in cui lavora la cameriera si confonde con quello parigino in cui soggiorna lo scrittore e il prezioso appunto della cameriera viene rubato dall'amante dello scrittore). E quando, alla fine, lo scrittore si ritrova a inseguire in mezzo alla folla le donne delle tre storie che si confondono l'una con l'altra, è evidente che anch'egli è dentro una storia, che si conclude con l'apparizione di un bambino: è il protagonista invisibile del dramma osceno (cioè fuori scena) che muove nell'ombra tutte le storie. Subito dopo, nel breve epilogo, scopriamo che il “vero” narratore è quello che avevamo già visto all'inizio in una scena quasi uguale, che di fatto è la cornice di tutto il film: seduto al computer, nella penombra della sua camera, lo scrittore sente alle sue spalle una voce che sussurra “Guardami!”, si gira sorpreso e rimane pensoso. È la voce fantasma del bambino, che evoca il dramma, rivelato allo spettatore poco prima, nell'ultima telefonata dello scrittore alla moglie.

Se questo è dunque il “vero” personaggio-narratore, quanto corrisponde allo scrittore di cui parla il film che racconta il suo libro? E quel dramma lancinante fa veramente parte della sua biografia personale?

Le domande rimangono in sospeso, ma non riescono a dare fascino a un film che non funziona. Il suo principale difetto, a mio avviso, è proprio il virtuosismo metanarrativo: il complicato, raffinato gioco letterario di Haggis lascia uno sgradevole retrogusto di finzione e cerebralità sulle tre storie; le quali soffrono già di per sé di un eccesso di melodramma che sconfina nell'implausibilità (forse per compensare la cerebralità della costruzione?). Che Haggis ami l'intreccio (alla Altman) di storie emotivamente molto forti, lo aveva dimostrato in un bel film come Crash. Qui però esagera e ne vien fuori un puzzle estetizzante di emozioni, nel quale si sente fin troppo la ricerca dell'effetto, la costruzione di momenti emotivamente densi che rimangono però sospesi in una costruzione inutile e artificiosa.

Parafrasando la critica feroce che nel film lo scrittore si sente rivolgere dal suo agente, si potrebbe dire che in questo film Haggis “costruisce personaggi a caso soltanto per giustificare” il suo narcisismo autoriale.

 

 

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