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A proposito di Davis

Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film

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La recensione su A proposito di Davis

di chinaski
8 stelle

Alla deriva tra i giorni e le strade gelide di New York, alla ricerca di un divano dove riposare, la chitarra sempre appresso, i locali in cui suonare, seduto su uno sgabello. Il folk è una musica scritta per il cuore e Bob Dylan ancora un perfetto sconosciuto, sono i primi anni sessanta nel Village e Llewyn Davis è senza soldi, sbattuto dalla vita, un gatto che lo accompagna nei suoi spostamenti, donne che lo accusano di essere uno stronzo, un padre che si caca addosso quando gli suona una delle sue canzoni preferite. Venata di una crepuscolare ironia e immersa in un dolente vuoto dell’anima è questa ennesima storia raccontata dai fratelli Coen, piena di personaggi a tratti grotteschi, come quello interpretato da un John Goodman tossico e dal profilo wellsiano, che viaggia in macchina con il suo valletto, caricatura vivente del poeta beat taciturno e scontroso, alla Peter Orlovsky, sigaretta in bocca e sguardo dritto sull’asfalto, capace di tirare fuori versi incomprensibili dalla sua mente. E il respiro carico di tristezza delle immagini, immerse in una luce delicata e invernale, i bagliori dei riflettori sulla cassa della chitarra, il volto di un produttore in penombra illuminato dalle note della musica di Llewyn che sentenzia – non si fanno i soldi con quella roba e ancora nessun posto dove andare, perché la vita in quegli anni era ancora una splendida quanto dolorosa ricerca e di questa lontana utopia di un’esistenza che non finisse ingabbiata in un lavoro fisso, in una famiglia o in tutto quello che la nostra famelica società continua ad offrirci, rimangono solo riflessi, echi di voci e canzoni. E i fratelli Coen, con il loro personale cinismo, ci accompagnano nelle strade del Village e lo fanno con uno sguardo che è lo stesso che troviamo sul volto di Llewyn, occhi carichi di malinconia, stanchi di esistere nella miseria e in questa estenuante lotta per riuscire a vivere della propria arte, come espressione profonda di sé stessi (anche se la sconfitta è quasi sempre il risultato più ovvio) è dalla parte dei perdenti che ci schieriamo, nelle fredde vie di qualche città, perché non è la gloria quello che brucia dentro, quanto l’inestinguibile bisogno di continuare a raccontare storie, che siano fatte di parole musica o immagini non importa, storie che forse avremo già sentito, ma senza le quali la tristezza che ci portiamo dentro non sarebbe così meravigliosa.

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