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Vegetarian Cannibal

Regia di Branko Schmidt vedi scheda film

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La recensione su Vegetarian Cannibal

di OGM
8 stelle

La Croazia si presenta agli Oscar 2013 con un film per stomaci forti. È un esempio di cinematografia dura, che parla attraverso metafore che disgustano lo sguardo e spezzano il cuore, per rinviare a ferite ancora aperte, a dolori mai sconfitti. Il traslato, in questo caso, aggrava il raccapriccio anziché lenirlo. Ed è immerso in una realtà attuale, il cui contenuto non ci sorprende, però fa parte di quegli aspetti che la nostra sensibilità preferisce rimuovere. Branko Schmidt ce li ripropone in una veste familiare, e quasi rassicurante, di un noir in camice bianco. Miami Vice e E.R.  si incontrano su un comune territorio segreto, e la miscela risultante è esplosiva, un mix di veleni chimici e materia organica da sezionare.  La carne umana è protagonista di un orrore che non cessa di contaminare la visione anche in tempo di pace, come se la morte e il sangue non volessero uscire di scena, a perenne memoria dei crimini commessi. Danko Babic si nutre solo di verdure e beveroni energetici, però è un macellaio. È tale nella sua abituale attività di ginecologo, nel reparto di ostetricia di un ospedale pubblico di Zagabria. Pasticcia in sala operatoria e falsifica cartelle cliniche. Riceve denaro in cambio di favori e pratica aborti clandestini. È colluso con la mafia e con alcuni poliziotti corrotti. E a farne le spese sono le solite vittime innocenti, donne e bambini. Non ci vuole una guerra perché siano loro a pagare il prezzo più caro di una violenza che, anche quando le armi tacciono, continua a regolare i rapporti di potere: quelli tra un medico e la sua paziente, tra un primario ed i suoi assistenti, tra le prostitute ed i loro sfruttatori, tra un funzionario e la sua segretaria-amante. Danko Babic si gonfia i muscoli in palestra e si carica di adrenalina suonando la batteria mentre tante vite fragili fremono sotto i suoi ferri. Il contrasto fa accapponare la pelle, ma rispecchia la logica perversa e primitiva che, anche nelle società civilizzate, si alimenta di sesso e si basa sulla legge del più forte. Del più prestante, del più ricco, del più furbo. Mentre due cani da combattimento si azzannano furiosamente, Danko scommette su chi sopravvivrà, e su chi, invece, verrà trascinato via cadavere. È con un crudele gioco quotidiano, indirettamente omicida, che quell’individuo senza scrupoli ama guadagnare denaro e procacciarsi privilegi. Si ciba dei corpi degli altri, ed è disposto a divorarli anche solo per fare carriera. È cannibale quando rovina i colleghi per sbarazzarsi di loro, o costringerli a sottomettersi, però lo è nella maniera ipocritamente “pulita” che non adopera il coltello e non sporca le mani, perché lavora con strumenti fatti di carta: le parole, i documenti, le banconote. Senza contare che, nell’era telematica, per compiere un sopruso spesso basta anche solo un clic sulla tastiera. Danko si comporta come la politica peggiore, secondo quel malcostume antisociale che, all’interno degli apparati statali, si può vedere come una rivisitazione, con altri mezzi, di ciò che sul campo di battaglia sarebbe una guerra fratricida. In un modo o nell’altro, il danno entra nelle viscere dei più deboli, e quasi sempre in senso letterale. Questo film ce lo rammenta con una storia che reca l’impronta di una cultura balcanica umiliata dal degrado, però hai connotati universali di un morbo che può contagiare qualunque sistema, democratico o autoritario che sia. La piaga sembra endemica, a causa della traccia lasciata dal recente passato in quella tormentata penisola. Ma ci vuole poco per accorgersi che il fenomeno è, purtroppo, perfettamente esportabile.

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